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Al Gom di Reggio un grande team contro il Coronavirus: "Nessuno si è tirato indietro"

C'è un libro ideale che resterà a memoria del coronavirus, “scritto” da sentimenti diversi che ne arricchiscono di volta in volta le pagine: paura; ansia nel cercare di rubare il tempo al virus che “vola” così veloce, ma anche tanta gioia per quei successi che non erano affatto scontati. Perché è difficile dimenticare quel sorriso accompagnato dal classico gesto di “ok”, che ogni paziente (nove in tutto, di cui l'ultimo proprio ieri, sono usciti dal tunnel della Rianimazione), ha tributato al personale non appena ha avuto la possibilità di liberarsi da tubi vari che lo tenevano in vita.

È la storia dell'Unità operativa di Terapia intensiva e anestesia del Grande Ospedale Metropolitano. Un'equipe di medici, infermieri e oss guidata da Sebastiano Macheda, direttore anche del Dipartimento Emergenza ed Urgenza, con l'ausilio dei coordinatori infermieristici Giuseppe Sarica e Vincenzo Amalfi e con il contributo prezioso del dottore Massimo Caracciolo. «Anche nel momento più caldo, abbiamo cercato di infondere fiducia alla popolazione reggina, nonostante la trance agonistica fosse sempre alta per la consapevolezza di dover combattere una guerra», esordisce Amalfi, caposala della Terapia Intensiva. Proprio gli infermieri sono parte fondamentale di questo percorso che unisce l'umanità alla professionalità, ricercando anche le piccole cose per dare sollievo a chi è ancorato ad un letto, come quella corsa nel preparare il panino, di cui ci ha parlato Giosuè Insinga, il primo a riconquistare la luce e che ancora oggi dice grazie a tutto il personale.

«Il nostro lavoro è nell'urgenza, e vediamo ogni tipo di sofferenza, anche quella che colpisce i bambini, e che ci lascia un senso particolare di tristezza e a volte di impotenza. Ma qui siamo di fronte ad un'emergenza nuova e collettiva, che ci ha portato a prepararci all'arrivo del paziente affetto da coronavirus, liberando una parte della Terapia intensiva per accoglierlo, e soprattutto con il timore che potesse essere il primo di una lunga serie. Ci siamo dovuti “industriare” - spiega Amalfi -, capire come vestirci prima di entrare in area Covid, consapevoli che ognuno di quei dispositivi individuali di protezione, che per la verità l'azienda ospedaliera ci ha fornito subito, è un pezzo fondamentale della sicurezza nostra e di quella dei nostri familiari. E ricordo ancora la forte sensazione che ho vissuto la prima volta in Pneumologia, quando un medico mi ha aiutato a indossare la tuta. Al di là delle immagini che ci illustravano le modalità per attrezzarci al meglio, ci siamo dati una mano per applicare nel modo più efficace una procedura che in fondo sapevamo tutti essere salva vita». Aggiunge: «La cosa più bella che da coordinatore ho avuto modo di notare, è che nessun infermiere o nessun Oss, si è mai tirato indietro. Questa è una cosa che mi emoziona ancora oggi: non c'è stato mai alcun calo di tensione, tentennamento o dubbio nemmeno quando si è toccato il numero più alto di ricoverati covid, sette contemporaneamente. Ogni infermiere e ogni oss, 24 ore, con le dovute turnazioni, ha vissuto accanto al paziente la propria missione, senza mai risparmiarsi, e ciò nonostante al Nord salisse il numero dei medici morti».

Dunque, una squadra in armonia, come vediamo in questa foto che ritrae gli infermieri con il primario Sebastiano Macheda, “il papà” di tutti. «Ogni 12 giorni ci sottoponiamo a tamponi e finora sono stati all'incirca 150 quelli effettuati, tutti negativi e, per la verità, non abbiamo mai temuto che in ospedale potessero alimentarsi particolari fonti di contagi. Siamo stati bravi - riconosce Amalfi -, in questa prima fase e speriamo che vada bene per la ripresa di attività e di vita. La Terapia Intensiva deve essere sempre preparata a un ritorno di pazienti e l'area Covid è sempre aperta. Certo, dipende molto da noi cittadini e operatori, contribuire a una battaglia di civiltà. Io non vedo mia mamma da due mesi: mi manca, ma la ragione e la tutela della salute devono prevalere». Aggiunge Vincenzo Amalfi: «Nel primo periodo, in cui mettevamo in conto un numero rilevante di ricoveri, ci hanno aiutato cinque infermieri provenienti dal blocco operatorio e uno dalla cardiologia. Poi, di fronte ai numeri contenuti, questo rafforzamento di risorse è rientrato».

Infine, su tutti, il senso di una squadra che nelle difficoltà nuove si scopre più forte. «Siamo da sempre un reparto molto compatto, nonostante i piccoli litigi che scandiscono la nostra vita quotidiana. Ma oggi - ammette Vincenzo -, questo legame lo sentiamo ancora più intenso, ognuno è sempre più per l'altro, e si sorvola sulle banalità. Unione al nostro interno, ma anche tra le varie componenti dell'ospedale che hanno trovato un momento di importante condivisione nel protocollo terapeutico che è stato di grande aiuto nella gestione dei pazienti covid».

Il caposala di Terapia Intensiva Vincenzo Amalfi apre il libro dei ricordi e trova «tante immagini che conserviamo nel cuore, e ognuna ha il suo giusto spazio. A cominciare da Giosuè, il primo paziente che ha lasciato la divisione di Rianimazione, che è indimenticabile, perché rappresentava la speranza concreta che potessimo farcela anche quando i dati che arrivavano dalle Terapie Intensive del Nord erano poco incoraggianti. E ancora l'immagine di amore tra marito e moglie che si salutano; lei, lascia la Rianimazione per proseguire la convalescenza in un reparto più leggero; lui continua la sua lotta, ma con una speranza in più. E poi, i tanti momenti vissuti con il paziente e la felicità nel soddisfare la voglia di un cornetto caldo e piccole delizie che abbiamo potuto assicurare attraverso il bar dell'ospedale».

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