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La retata a Reggio Calabria, così i Labate tenevano in pugno la città

«Una persona “criminalmente seria”». È stato il collaboratore di giustizia Giacomo Ubaldo Lauro, lo storico primo pentito della ’ndrangheta di Reggio (contestualmente a Filippo Barreca) a tratteggiare in maniera inequivocabile la leadership criminale nell’intero mandamento “Città” di Pietro Labate, indiscusso vertice della cosca che porta il nome della sua famiglia e che da sempre domina gli scenari dei popolosi, e antichi, quartieri Gebbione e Sbarre.

Un passaggio che viene rimarcato nelle carte di “Cassa continua”, l’operazione della Dda e dei carabinieri che lo scorso venerdì ha colpito una costola della cosca che fa riferimento a Pietro Toscano ed Antonio Laurendi (entrambi indagati e arrestati). Il Gip delinea così la forza del clan: «Guidati dalla mano abile di Pietro Labate acquisiscono progressivamente il pieno controllo della parte sud di Reggio Calabria e, in assenza di qualsiasi contrasto all'interno del loro territorio (non risulta che ci sia mai stato anche solo il tentativo da parte di altri gruppi organizzati di mettere in crisi il loro dominio) e badando bene a tenersi fuori dagli scontri che dilaniarono altre cosche mafiose, consolidano la loro presa sulle attività economiche soggette alla loro influenza».

Per strategia, lungimirante ed azzeccata, restano fuori dalla seconda guerra di ’ndrangheta, rafforzando la propria influenza nell'area geografica di antico predominio: «L’accertamento dell’esistenza e dell’operatività del temibile aggregato mafioso denominato “cosca Labate” o “famiglia Labate” o “Ti mangiu”, operante prevalentemente nel popoloso quartiere Gebbione (territorio coincidente con l’ampia area geografica posta a sud della città di Reggio ricompresa tra il Calopinace ed il torrente Sant’Agata), è stato oggetto del procedimento penale denominato “Gebbione”».

Esercitavano un dominio assoluto, come gli analisti della Dda ricostruiscono passando in rassegna le inchieste “Larice”, “Gebbione” e, seppure in parte “Archi-Astrea”, fino alla recentissima “Helianthus”. Strapotere che si conferma anche in “Cassa continua”, dove si ribadisce come «Pietro Labate e i suoi compagni si propongono sia nella veste tradizionale di predoni (l’imposizione della mazzetta senza alcuna contropartita per la vittima) sia in quella più avanzata di imprenditori pienamente inseriti nel tessuto produttivo del loro territorio; beninteso la loro imprenditoria risente positivamente della condizione mafiosa e si avvale di ogni possibile strumento di intimidazione per superare e travolgere la normale competizione di mercato».

Organizzazione antica con rigide gerarchie: «La cosca Labate ripropone peraltro tutte le caratteristiche del classico archetipo del gruppo mafioso: c'è quindi l'organizzazione gerarchica (un capo, dei direttivi e degli esecutori), il controllo capillare del territorio, la disponibilità di armi, munizioni ed esplosivi (ed il loro largo uso), l’imposizione di vessazioni di ogni tipo a commercianti, imprenditori, operatori economici, la repressione di comportamenti leciti o illeciti che siano sgraditi al gruppo».

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