«Mio marito non è morto di Covid, ma per il Covid è morto in un letto di ospedale senza nessuno che lo accompagnasse nel suo ultimo viaggio...». Chiede chiarezza su quanto accaduto la vedova di Francesco Mancuso, che annuncia un esposto sul caso del marito deceduto a Polistena.
Riportiamo la denuncia della donna: si tratta della ricostruzione della famiglia. È necessario fare luce sui fatti, auspicando che ciò avvenga in tempi brevi: a questo potrà contribuire l’ospedale chiamato in causa.
«La degenza – racconta Lidia Spataro – è stata un calvario. Appena arrivato al pronto soccorso per una caduta, come da prassi, mio marito ci è rimasto quarantott’ore per il tampone molecolare». Ai familiari era inibito l’accesso, nel rispetto delle misure anti-Covid. «Ma ci sono persone – continua la signora – che a pagamento sono pronte a sfruttare la situazione».
Nel trasferimento dal Pronto soccorso al reparto di Ortopedia viene persa la dentiera del paziente. «E qui – incalza la moglie – inizia la tragedia. Francesco si dispera perché non può alimentarsi come si deve, ma diciamo che nel reparto fanno di tutto per alleviare il disagio. Mio marito viene operato, tutto bene. Cinque giorni e poi doveva essere trasferito a Villa Elisa. Ma non fanno il fax di conferma e mio marito torna a casa. Una settimana di fisioterapia, ma nonostante l’amore e la nostra pazienza Francesco non riesce ad alimentarsi come si deve. Una settimana e arriva la telefonata tanto attesa di Villa Elisa. In questa struttura d’eccellenza, e sottolineo d’eccellenza, mio marito ritrova la serenità, ha un team che lo segue, poiché è non vedente e ha bisogno di attenzioni speciali».
I contatti con i familiari vengono mantenuti tramite videochiamate, «e Francesco – racconta ancora la Spataro – comincia a fare i primi passi. Ma accade che, dopo una settimana esatta, mi chiamano per dirmi che mio marito ha avuto un’emorragia e quindi avevano chiamato il “118”. Erano le 9 di sera. Chiedo in quale ospedale lo stessero portando e mi dicono Polistena. Partiamo io e mia figlia, ma arrivati in ospedale ci dicono che non è lì. Torniamo a casa pieni di ansia. Dopo qualche ora telefono al Pronto soccorso di Polistena e mi dicono che è lì. Un’altra trafila per il tampone molecolare e permanenza al Pronto soccorso di 48 ore. Nessuno si prende la briga di dirci che un familiare poteva rimanere, sottoponendosi a un tampone rapido. No, perché ci sono i soliti sciacalli che aspettano con un tampone fatto la settimana prima e si propongono di assistere il povero cristo di turno».
Il racconto continua: «Mio marito finalmente arriva nel reparto di Medicina il 27 gennaio e qui la viviamo la tragedia più assoluta. Io non riesco a parlare con un medico del reparto per sapere le esatte condizioni in cui versa mio marito. Telefono e chiedo di parlare con un medico, ma mi viene detto che in quel momento non è disponibile, avrei dovuto richiamare più tardi. Chiamo – prosegue Lidia Spataro – altre due volte ma non riesco a parlare con nessun medico perché in quel momento non è disponibile. Questo succede sabato. Domenica, lunedì e martedì non rispondono proprio... Mercoledì 3 febbraio mio marito, con le poche forze che gli restano, avendo un cellulare con i numeri memorizzati riesce a chiamare mia nipote alle 5 del mattino e le dice che vuole parlare con me. Mia nipote si trova a 1.500 chilometri di distanza, mi chiama e mi allarmo subito; cerco di trovare qualcuno che mi possa dare notizie e la notizia arriva... Mio marito, a detta della persona incaricata, stava riposando. All’una meno un quarto ricevo la telefonata sempre del suddetto ragazzo, e non di un medico, il quale mi informa che mio marito è deceduto».
Il racconto diventa un misto di rabbia ed amarezza: «Non avevo il diritto di essere informata che mio marito si era aggravato? Non avevo il diritto di essere informata da un medico e non da uno di passaggio? Mio marito è morto senza il conforto di nessuno, gli hanno tolto anche la dignità della morte, la dignità che mio marito ha sempre avuto. A questo punto mi domando: è umano? Non mi do pace e spero che questo non succeda più. Perché fare il medico non è un lavoro qualsiasi, ma dovrebbe essere una missione. Mio marito era cieco e non meritava di morire in quel modo».
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