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"Temevano di essere intercettati". Le precauzioni della cosca Barreca di Reggio

Il pentito Checco Labate svela alla Dda i timori del boss rispetto ai possibili blitz

Giovanni Bomardieri e Gaetano Paci, al vertice della DDa reggina

Sospettosi e guardinghi il boss di Pellaro e Bocale, Filippo Barreca, e il suo “cerchio magico”, la rete di colonnelli e fiancheggiatori con i quali era riuscito a riprendere in pugno la sua “locale” imponendo il pizzo a tappeto e stremando chiunque operasse imprenditorialmente anche se sponsorizzati dalle ’ndrine egemoni del mandamento “Città”. Era soprattutto Filippo Barreca, ritornato in azione dopo la scarcerazione per gravi motivi di salute nonostante fosse condannato all'ergastolo, a fiutare le possibile attenzioni degli inquirenti e temere di poter essere intercettato. A svelare questo timore del capoclan è il genero Francesco Labate, da una manciata di settimane collaboratore di giustizia. Arrestato il 17 febbraio nel blitz “Metameria”, la retata della Direzione distrettuale antimafia, guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri, sull'asse Pellaro-Bocale-Archi, il 23 marzo successivo il pentito Francesco Labate è per la seconda volta davanti al sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Walter Ignazitto. Agli inquirenti, tra i tanti temi dichiarativi rigorosamente, ed inevitabilmente, omissati, svela: «Quando parlavamo di Palumbo, lo chiamavamo o “Giovanni” o “l'avvocato”. Era stato mio suocero che, temendo intercettazioni, ci diceva che - parlando di lui - dovevano utilizzare quel linguaggio criptico». E gli ordini del Capo non si discutevano mai nella ’ndrina Barreca.

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