Una filiale locale della 'ndrangheta, una 'ndrina con il «marchio di qualità» che ci teneva a precisare: «siamo come quelli di giù». Un gruppo criminale che da anni operava a Roma, mettendo le mani sul business della ristorazione e reinvestendo un fiume di denaro di provenienza illecita, che aveva ottenuto dalla «casa madre» in Calabria il via libera ad operare con i metodi tipici delle cosche. Linguaggi, doti e riti tipici della criminalità della terra d’origine trasferite nel cuore della Capitale. A capo dell’organizzazione, smantellata oggi dalla Dda e Dia con 43 misure cautelari, una diarchia: i boss Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro (in passato assolto per prescrizione nell'operazione Cafè de Paris), entrambi legati a storiche famiglie di 'ndrangheta originarie di Cosoleto in provincia di Reggio Calabria. In questa "scalata" romana dell’organizzazione criminale calabrese il punto di svolta risale all’estate del 2015. In base a quanto ricostruito dagli inquirenti in quei giorni Carzo avrebbe ricevuto dall’organo collegiale dell’organizzazione, nota come Provincia o Crimine, l’autorizzazione a "riprodurre" in territorio capitolino le dinamiche tipiche delle cosche a cominciare la capacità di intimidazioni delle vittime. Il lavoro delle forze dell’ordine ha portato ad individuare le tante attività economiche utilizzate dal clan per fare business. "Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto", afferma uno degli indagati nelle intercettazioni mentre il boss Alvaro non usa giri di parole affermando, sempre intercettato, «siamo una carovana per fare la guerra». Sostanzialmente il gruppo non operava in una singola area di Roma ma è riuscita ad infiltrarsi in vari settori come quello della ristorazione. Bar, supermercati, mercati all’ingrosso, ristoranti ma anche ritiro pelli e gestione degli olii usati: la "locale" era ovunque e poteva contare anche sull'omertà delle vittime. Per riscuotere i crediti la cosca aveva «appaltato» a gruppi locali, come la famiglia Fasciani, l’attività: esattori per conto terzi. «L'insieme delle circostanze hanno dato prova del metodo mafioso e della paura di coloro che si sono trovati sulla strada dei capi e degli associati della "locale" - scrive il gip nell’ordinanza - che professava la sua aperta vicinanza alla 'ndrangheta ("dietro di me c'è una nave"), impedendo alle vittime così di denunciare alle Forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni». Per il giudice «siamo di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso sino al settembre 2020 e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire - scrive il gip - ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società».