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Roma "provincia" di Sinopoli: la genesi

L'arrivo dalla Calabria e la legittimazione della locale: "Grazie dell'onore che mi avete dato". Interconnessione con la casa madre ma spazi di autonomia operativa: "Voglio cristiani seri"

«Quando siamo stati là gli ho detto… Vi ringrazio… Vi ringrazio dell’onore che mi avete dato». A parlare, intercettato, è Antonio Carzo che racconta il momento dello “svolta”, quello in cui sarebbe stato autorizzato a costituire una locale a Roma con il benestare della “casa madre” in Calabria. È la cosiddetta “propaggine” al centro della doppia inchiesta delle Dda di Reggio e Roma sfociata martedì in 77 arresti, di cui 34 nella provincia reggina, per colpire la ’ndrina Alvaro di Sinopoli e Cosoleto.

Al vertice capitolino sarebbero stati proprio Antonio Carzo, figlio di Domenico detto “scarpacotta”, e Vincenzo Alvaro, figlio di Nicola detto “u beccausu”. Sotto i riflettori degli inquirenti un disegno complessivo, e ambizioso, per un’importante espansione criminale su Roma con un “percorso autonomo”: dal controllo delle attività commerciali alle classiche estorsioni, secondo il più classico campionario di riti e affiliazioni.

«Noi siamo qua, guardate quanto siamo belli qua» dice Antonio Carzo che, pur non essendo mai stato a Roma prima del 2014, sarebbe riuscito ad ottenere dal “Crimine” ciò che ’ndranghetisti da molti anni residenti nella Capitale non erano mai riusciti a conseguire. Secondo gli inquirenti «nella Capitale è stata creata una articolazione territoriale della cosca», ma con un distinguo: «Noi ci facciamo i cazzi nostri», spiega Carzo facendo anche un esplicito parallelo con ciò che accadeva ad Ostia: «Come noi qua o là… come gli Spada si fanno i cazzi loro, o no?». E d’altronde, «hai aperto un bel locale... avete un locale qua..» gli riconosce un interlocutore anch’egli indagato. Si tratta, in questo caso, di Francesco Greco, che fornisce una chiarissima chiave di lettura sulla diarchia con Vincenzo Alvaro: «Poi sei arrivato tu grazie a Dio... il mondo è grande... è più grande... ogni cristiano ha la sua personalità... Arrivi tu... va bene... poi... detto da questo... poi non so cosa sia successo affinché tu passassi qua a Roma con Vincenzo».

Lo scenario sarebbe piuttosto chiaro: connessione costante con “là sotto”, rispetto delle regole e capacità giurisdizionale con tanto di “tribunale di ‘ndrangheta” , ma autonomia operativa. Anche nella scelta degli uomini. Perché sì, bisogna essere inclusivi «come l’acqua nella fontana» nei confronti di quei calabresi che erano residenti a Roma da diversi anni e che appartenevano a storiche famiglie di ’ndrangheta, coinvolgendoli in qualche modo nella nuova locale, ma a condizione che siano «cristiani seri». A chiarirlo, sempre intercettato, è ancora Carzo quando si irrigidisce non accettando influenze esterne: «A me l’altra volta sono arrivati cristiani da sotto. «Ma come mai non sono venuti loro? Nessuno che pensi che devono venire con me perché li mandano gli altri… Da me devono venire perché vogliono noi altri… perché vogliono loro, non perché li mandano quegli altri (dalla Calabria)… Perché se pensano che li mandano quegli altri io me ne fotto di loro… Io sono io… non mi interessa nulla di nessuno… io sono io… mai nessuno che pensi che io… mi devono comandare gli altri».

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