«Siete una dittatura, lei, il dottor Giovanni Musarò», pm della Procura della Repubblica di Roma, «e la Dia. Questa è una dittatura, nessuno mi risponde, tutto quello che state facendo non lo potete fare, non siete autorizzati, spero che lei, amministratore giudiziario non passi quello che state facendo a queste persone». È quanto sarebbe stato detto da un presunto avvocato della famiglia Alvaro all’amministratore giudiziario del forno del quartiere Tuscolano sequestrato nell’ambito dell’operazione “Propaggine” condotta dall’antimafia capitolina nei confronti di una locale della ’ndrangheta operante a Roma e riconducibile alle famiglie Alvaro-Carzo.
Accusavano inquirenti, investigatori e gli amministratori giudiziari di essere «una dittatura», con una propensione all’intimidazione compiuta anche alla presenza degli agenti della Dia, ma loro cercavano stranieri o rom cui intestare in maniera fittizia le attività acquisite con la forza intimidatoria derivata dall’appartenenza alla ’ndrangheta. Il boss Vincenzo Alvaro si circondava di fedelissimi che non lo tradivano neanche dopo l’arresto e, secondo gli investigatori, assicurandogli sempre la sua parte degli introiti nella gestione delle attività commerciali.
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