"Praticamente sono passati 10 anni da quando ha preso il via questa delicata vicenda processuale. Ricavando che la 'Ndrangheta non era al di fuori da determinate logiche criminali. E che non fosse un crimine organizzato inferiore rispetto a Cosa nostra". È iniziata questa mattina in Corte d'Assise d'appello a Reggio Calabria (presidente Bruno Muscolo, a latere Giuliana Campagna) la requisitoria nel processo 'Ndrangheta Stragista, l'inchiesta che punta a svelare i registi e i mandanti degli attentati ai Carabinieri consumati nel Reggino a cavallo tra il 1993 e il 1994 nel quadro del piano di Cosa nostra di ampliare la strategia della tensione ricattando lo Stato per farlo indietreggiare rispetto all'inasprimento delle leggi antimafia e del carcere duro.
La discussione della Procura generale è stata avviata dal procuratore aggiunto di Reggio, Giuseppe Lombardo, affiancato dal sostituto antimafia Walter Ignazitto. Presente in aula anche Ivana Fava, la figlia di una delle vittime degli agguati ai Carabinieri, il maresciallo Antonino Fava, parte civile insieme agli altri familiari di chi ha pagato con vita per aver adempiuto al dovere da militare dell'Arma. Due gli imputati (già condannati all'ergastolo in primo grado) il boss siciliano Giuseppe Graviano, capo del mandamento Brancaccio a Palermo, e Rocco Santo Filippone, il referente della 'ndrina Piromalli di Gioia Tauro.
Lombardo, nel suo intervento, ha descritto la difficoltà «di trovare elementi di indagine di fatti accaduti 40 anni fa, ma riteniamo di avere integrato ricostruzioni già esistenti per dimostrare che certe figure politiche e taluni incontri, non sono stati casuali. Tante coincidenze che sono diventate prove a distanza di dieci anni». Giuseppe Lombardo, inoltre, ha sottolineato «l'apporto dei collaboratori di giustizia, chi ha il coraggio di parlare in una nazione di silenzi», che ha reso possibile evidenziare come la 'ndrangheta abbia affiancato Cosa nostra nella stagione delle Stragi, «in un unico disegno unitario»
Il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, proseguendo nella sua requisitoria nel processo 'Ndrangheta stragista, ha individuato «alcune 'famigliè apicali di 'ndrangheta, come i Piromalli e i De Stefano», come presunte mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e di altri due attentati nei confronti di militari dell’Arma consumati a Reggio Calabria tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994. «Giuseppe Calabrò e Consolato Villani - ha sottolineato il rappresentante dell’accusa - agirono da soli, ma su richiesta di Rocco Santo Filippone, zio acquisito di Giuseppe Calabrò, «con l’obiettivo di seminare il terrore in Calabria, in maniera indistinta e feroce, contro i carabinieri , una decisione che poteva essere presa solo dai vertici della 'ndrangheta».
Secondo il Pg, «i Piromalli e i De Stefano, furono tra i primi in Calabria, come si evince dalle testimonianze di Buscetta, Vitale e Pennino, riprese in alcune sentenze, a ricevere la doppia affiliazione nella 'ndrangheta e in Cosa nostra. Peraltro - ha detto ancora Lombardo - Tommaso Buscetta, per un periodo, fu 'ambasciatorè presso i Piromalli per conto di cosa nostra». Giuseppe Lombardo, ancora, ha affermato che «la forza dei Piromalli e dei De Stefano scaturisce dalla vittoria della prima guerra di 'ndrangheta, del 1974, a Reggio Calabria, contro il boss Mico Tripodo, e trasformano la 'ndrangheta in quel mostro criminale che è oggi. In tal senso esistono riscontri non solo fattuali, ma storici e logici».
Giuseppe Lombardo, inoltre, ha delineato i motivi secondo cui là ndrangheta reggina ha deciso alla fine degli anni '60 di modificare la linea organizzativa di rappresentanza, «a seguito del summit di Montalto, in Aspromonte, dell’autunno del 1969, e successivamente alle sentenze del Tribunale di Locri, nominando persone di strettissima fiducia al posto loro, come Rocco Santo Filippone, già menzionato dal pentito Pino Scriva negli anni '70 come rappresentante dei Piromalli, secondo il quale sarebbe stato poco attenzionato nonostante le sue dichiarazioni».
«La guerra totale contro lo Stato fu una decisione unitaria del sistema criminale mafioso italiano» ha affermato il Pg di udienza, Giuseppe Lombardo. Secondo il rappresentante dell’accusa, «'Ndrangheta e Cosa nostra vollero inviare un granitico messaggio per sottolineare l’unitarietà della decisione che sfociò negli attentati di Roma, Firenze e Milano, e negli attacchi agli uomini dell’Arma. D’altronde - ha spiegato - perchè Totò Riina scelse come compare d’anello il defunto boss Mico Tripodo, se non per sottolineare che erano una cosa sola?». Lombardo, inoltre, ha indicato Giuseppe Graviano come «coordinatore delle stragi», ricordando l’incontro tra il boss di Brancaccio a Roma con Spatuzza e la famosa frase pronunciata da Graviano «abbiamo il Paese nelle mani, e sottolineando la sua volontà di accelerare il progetto stragista con nuovi attentati perchè «qualcuno voleva una ulteriore prova di forza contro i carabinieri» e ricordando lo scampato attentato contro i carabinieri allo stadio Flaminio:"Quel giorno ne dovevano morire 55».
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