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Reggio, le “verità” di Graviano irrompono nel processo ’Ndrangheta stragista

In Corte d’Assise d’Appello conclusa la fase delle arringhe difensive

Dai Piromalli, la storica e potentissima famiglia mafiosa di Gioia Tauro con forza apicale nella cupola provinciale della ’Ndrangheta reggina, al senatore Marcello Dell’Utri, tra i fondatori di Forza Italia: le dichiarazioni perentorie di Giuseppe Graviano, il boss palermitano dai trascorsi da vertice assoluto del mandamento del Brancaccio e tra i fedelissimi di Totò Riina, hanno caratterizzato l’ultima udienza del processo ’Ndrangheta stragista che ruota attorno agli attentati ai Carabinieri consumati nel Reggino tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994 nel più ampio, e soprattutto inquietante, disegno criminale di esportare anche in Calabria la stagione buia delle stragi siciliane per ricattare lo Stato che perseverava nella linea di confermare, ed anche inasprire, le leggi antimafia tra “carcere duro” ai boss mafiosi e l'offensiva delle misure patrimoniali per svuotare le casse dei clan mafiosi di ogni latitudine. In Sicilia, in Calabria, in Campania, nel nord Italia: ovunque fossero individuate escalation economiche grazie alla militanza, appartenenza o filosofia mafiosa.
Primo diniego di Giuseppe Graviano ha riguardato la conoscenza con i Piromalli. Sul punto è stato categorico: «Mai venuto in Calabria, mai conosciuti i Piromalli». L'accusa invece sostiene una tesi diametralmente opposta: Giuseppe Graviano, quale terminale di Costa Nostra su mandato di Totò Riina, e Rocco Santo Filippone, per la Procura antimafia di Reggio referente della ’Ndrangheta di Gioia Tauro ed esponente dei Piromalli, sarebbero i mandanti degli attentati ai Carabinieri e i due terminali del patto scellerato sull’asse Palermo-Reggio per aggiungere stragi a stragi. Entrambi già condannati in primo grado all'ergastolo, e destinatari nella requisitoria della Procura generale della conferma della pena massima.

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