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Mammola nella morsa asfissiante della 'ndrangheta. "Il paese lo teniamo come una bomboniera"

Le principali fonti di prova nell’inchiesta “Malea” sono rappresentate dalle intercettazioni delle parole proferite, per la maggior parte, direttamente dai presunti componenti dell’asserita associazione mafiosa di matrice ’ndranghetista che da anni terrebbe sotto scacco un territorio sul versante ionico della Calabria, tra l’Aspromonte e le Serre calabresi

Le principali fonti di prova nell’inchiesta “Malea” sono rappresentate dalle intercettazioni delle parole proferite, per la maggior parte, direttamente dai presunti componenti dell’asserita associazione mafiosa di matrice ’ndranghetista che da anni terrebbe sotto scacco un territorio sul versante ionico della Calabria, tra l’Aspromonte e le Serre calabresi. Un’area ben definita che sorge sulle antiche rovine della colonia greco-locrese di Malea, ovvero il territorio di Mammola, alla quale prende il nome dell’operazione condotta dagli investigatori della Squadra mobile, guidati da Alfonso Iadevaia e coordinati dal questore Bruno Megale. È proprio questo il terreno dove si sono svolte le investigazioni a partire dalla metà dell’anno 2016, un’area permeata dall’infiltrazione mafiosa di una locale della ’ndrangheta che, secondo gli inquirenti, controllava l’imprenditoria e le attività nel settore boschivo con il metodo delle estorsioni, la produzione ed il traffico di sostanze stupefacenti e, finanche, le attività ludiche che ogni anno si svolgono in occasione delle festività in onore a San Nicodemo, Santo patrono di Mammola. Un paese, Mammola, che gli investigatori hanno definito «chiuso dalla morsa asfissiante della ’ndrangheta ma che, nonostante questo, veniva considerato come una “bomboniera” da colui il quale e ritenuto il vertice decisionale della locale».
Ritengono gli operanti che in un dialogo intercettato nel pomeriggio del 19 ottobre 2016 si elogiava il controllo sul territorio esercitato nelle forme dell’antistato: «Sai come lo teniamo il paese? Come una bomboniera!». A parlare, secondo gli investigatori della polizia era Rodolfo Scali, ritenuto elemento apicale dell’associazione mafiosa. A lui tutti dovevano dare conto per tutto: «“Parla con Rodolfo”, “Con Rodolfo non voglio avere male cuore”, “Gli dico che hanno parlato con Rodolfo”, “Volevamo parlare prima con Rodolfo” ed altre frasi simili erano il leitmotiv di molte conversazioni».
Il gip distrettuale «condivide la ricostruzione accusatoria, compendiata nella richiesta cautelare nei confronti dell’indagato Rodolfo Scali, con il ruolo di vertice in imputazione provvisoria elevato». Ritiene il gip Antonino Foti che l’indagato Rodolfo Scali «rappresenti la figura principale all’interno della locale, in seno alla quale lo stesso ricopre la carica di capo locale. È lo stesso indagato – scrive il gip reggino – a vantarsi del fatto che la forza della locale di ’ndrangheta da lui diretta consista nel presentarsi all’esterno in maniera assolutamente coesa; ed infatti, come visto, nella conversazione del 19 ottobre 2016, il capo locale, conversando con tali Ciccio e Pasquale (non meglio identificati ma appartenenti, con certezza, ad altra locale), riferendosi a se ed al cognato Damiano Abbate (presente nella conversazione), affermava: “Ti sembra che qua... qua siamo contati, siamo; ti sembra che siamo come voi, eh, cinquanta famiglie, qua siamo contati, o tu o tu, non è che sbagliano... Qua noi siamo!”». «L’indagine – conclude il gip – in estrema sintesi ha permesso di accertare che Rodolfo Scali (unitamente ad Damiano Abbate) amministra la giustizia e ha un completo controllo del territorio. Ed infatti si evidenzia che gli viene immediatamente riferito ogni accadimento delittuoso che avviene nel territorio di sua competenza e ogni attività economica lecitamente intrapresa».

Nella foto di anteprima (tratta da Wikipedia), il paese di Mammola

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