«Aspiro ad avere un confronto con almeno uno di voi. Finora me lo avete sempre negato e d’altronde non mi sento di darvi torto. Voi, giustamente fate fede alla condanna. Lo so che le sentenze vanno rispettate, e io sono il primo a farlo. Ma non posso rispettare una sentenza costruita a tavolino: la verità non è quella che vi hanno fatto credere».
È uno dei passaggi più importanti della lettera che Rocco Schirripa, ex panettiere originario di Gioiosa Jonica, oggi 71enne, ritenuto per molti anni un boss di primo piano del “locale” di ‘ndrangheta di Moncalieri, in Piemonte, ha scritto dal carcere dov’è recluso da diversi anni. Due i destinatari: i figli dell’ex procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, assassinato nell’estate del 1983, secondo le risultanze dei vari processi, dalla ‘ndrangheta, e al quotidiano piemontese “La Stampa”.
Proprio per quel delitto il gioiosano Rocco Schirripa, trasferitosi circa 50 anni fa nell’hinterland del capoluogo piemontese, è in carcere da poco più di otto anni perché condannato in via definitiva all’ergastolo. Un fine pena mai che gli è stato inflitto, secondo quanto emerso nei tre gradi di giudizio del processo, perché accusato di aver partecipato (non è mai stato però specificato in modo chiaro con quale ruolo) al all’omicidio del procuratore Caccia. Il magistrato fu assassinato da almeno due killer la sera del 26 giugno 1983 nella vicinanze della sua abitazione di Torino in via Sommacampagna.
Nelle sue lettere spedite dal carcere, Schirripa ha fermamente negato ogni suo coinvolgimento nell’efferata esecuzione del magistrato torinese che con le sue inchieste aveva creato enormi problemi, con arresti e sequestri di beni, ai clan della ‘ndrangheta trapiantati in diverse aree dell’hinterland del capoluogo piemontese. Nel mirino del procuratore Caccia, in particolare, era finita la cosca gioiosana trapiantata al Nord capeggiata dal boss dei boss Domenico Belfiore e con all’interno dello stesso clan, con mansioni apicali, anche il “luogotenente”, Rocco Schirripa.
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