Le candeline sulla torta immaginaria sono 50: trenta accese e splendenti; venti spente tutte d’un colpo. Un colpo esploso al buio, una sera d’autunno. Oggi, 18 aprile, Massimiliano Carbone «un ragazzo di Locri, colpevole di vita», ama ripetere sua madre, vittima innocente di ‘ndrangheta, avrebbe compiuto 50 anni. È stato ucciso quando ne aveva trenta. Trentenne per sempre. Negli ultimi venti, la maestra Liliana non ha mai smesso di mantenerne viva la sua memoria e di trasmetterne i valori alle giovani generazioni.
«Siamo per sempre incinte dei nostri figli, noi mamme che li abbiamo perduti. Abbiamo giornate tutte uguali – dice Liliana – di lumini e fiori e di travaglio di parto senza fine. Ridiamo e alziamo gli occhi al sole e mangiamo una cosa buona, poi tutto resta a metà perché manca ai nostri figli. Non so se sia preghiera, quando parlo con lui».
Oggi ne rivive l’attesa «senza dubbi della creatura a cui dare il nome di padre Kolbe, in un tempo in cui ancora non si usava l’ecografia. Rivedo chiaramente i suoi giochi, il suo Goldrake e le sue paginette di scuola, ma poi – aggiunge – ogni tenerezza sfuma e devo per forza ricordare i suoi occhi senza sorriso e l’angoscia negli ultimi suoi sei anni, per la crudeltà dei comportamenti della donna del 1965 che lo rese padre. Mi viene chiesto spesso di raccontare mio figlio, che era davvero soltanto un ragazzo normale e che ha vissuto straordinariamente per la sua forza di amare. Non è stata l’invidia degli dei a fermargli la vita, ma quella di individui senza dignità e senza scrupolo, che hanno organizzato nel tempo un alibi artato, e l’agguato mortale per cancellare Massimiliano da quella Locri che considerano cosa loro, lavoro e donne compresi. E intorno ha salmodiato quello che io chiamo il coro greco, fatto da troppi e troppe che giustificano la violenza e l’auspicano come ristoro ai loro miserevoli desideri».
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