
C’è un Sud che non aspetta più di essere redento da narrazioni esterne, ma che sceglie di raccontarsi da sé, con voce ferma e radicata. Gioia Tauro si candida ufficialmente a Capitale Italiana della Cultura 2028. Lo fa con ambizione, consapevolezza e, soprattutto, una storia da rimettere in circolo.
Nell’annunciare il progetto, l’assessore alla Cultura Domenica Speranza parla di «un risultato storico» e di «una visione condivisa e partecipata». La dichiarazione può apparire di rito. Non lo è. Il capoluogo pianigiano – città troppo a lungo inchiodata all’immagine del degrado, della marginalità, della solitudine istituzionale – sceglie ora di occupare una posizione culturale centrale e lo fa con strumenti progettuali, prima che simbolici. Gioia Tauro è più antica di quanto il suo presente lasci intuire. Le sue origini risalgono alla colonia greca di Metauros, fondata nel VI secolo a.C., crocevia di commerci e saperi. I Romani la chiamarono Metauria e ne fecero tappa lungo la via Popilia. La storia fece il resto: invasioni, terremoti, pestilenze, la decadenza, e infine la marginalizzazione moderna. Ma quel passato è ancora visibile nei resti archeologici conservati nel Museo Metauros. Nelle fortificazioni cinquecentesche. Nella struttura urbana ottocentesca. È un’eredità reale, eppure trascurata, che questa candidatura mira a riattivare come fondamento di un progetto contemporaneo.
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