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Lawrence Ferlinghetti e il suo passaggio a Reggio: quando inseguì Ulisse sullo Stretto

All' "ultimo dei poeti beat" fu dedicata una mostra antologica, e proprio in Calabria concepì un grande progetto sul viaggio di Ulisse

Lawrence Ferlinghetti. Uno degli schizzi realizzati sullo Stretto

La luce lo aveva abbagliato. Alla sua anima da poeta e da pittore lo Stretto era apparso un luogo di meraviglie. E tutti i suoi miti attuali, evidenti. A partire dal più potente di tutti, quello dell’uomo perennemente in viaggio, inquieto e curioso. Il più simile ai suoi amici e sodali, inquieti e curiosi, quei poeti beat la cui storia è indissolubilmente legata alla sua. Lui, Lawrence Ferlinghetti, di padre italiano, morto a San Francisco lunedì a 101 anni (finalmente superata l’era geologica Trump, che tanto aveva patito nei suoi ultimi anni), era stato indicato come l’ultimo di quel gruppo di divini ribelli che cambiarono la prosa e la poesia con la loro prosodia bop e la loro feroce, inquieta umanità. Però lui diceva, con un lampo nei suoi occhi azzurri, che «i beat sono morti quasi tutti». Quasi, per fortuna solo quasi.

Lui li aveva scoperti, protetti, pubblicati. Lui li aveva scagliati sul mondo. Lui, il primo editore di Jack Kerouac e di Allen Ginsberg, di Gregory Corso, di William Burroughs. Lui che era identico e diverso da loro, e per loro aveva creato a San Francisco “City Lights”, la sua libreria-casa editrice-rifugio-tempio-casella postale della Beat Generation. Il luogo al centro di tutte le strade dei poeti “on the road”. Una storia evocata, anche, nel suo ultimo libro uscito in Italia proprio in occasione dei cento anni, “Little Boy” (edizioni Clichy, traduzione di Giada Diano), diario visionario, scrittura in piena come un lungo monologo lirico.

Quando lo incontrai nel luogo più improbabile di tutti, Palazzo San Giorgio, la sede del Comune di Reggio Calabria, dove l’ultimo della “Beat Generation” era ospite della giunta comunale, fu perfettamente chiaro, a me e a tutti, che nulla era trascorso. E che si può restare artisti e ribelli anche seduti nella sala d’una giunta (nemmeno di sinistra). Era il maggio del 2010 e Lawrence Ferlinghetti, 91 anni invisibili agli occhi, lo diceva con dirompente semplicità: «L'eredità del ribelle è presente ancora: nella cultura americana le uniche voci dissidenti sono ancora beat... ». E ancora non sapevamo quanto quelle voci sarebbero state «beat», nel significato originario di «battuto», anche se capovolto nel «beato»: la segreta, sofferta beatitudine degli sconfitti, dei portatori di divergenza.

«Il beat è qualunque uomo, qualunque uomo che rompa il sentiero stabilito per seguire il sentiero destinato», scriveva uno di loro, Gregory Corso, anzi Gregorio Nunzio Corso, come amava firmare col suo nome italiano. Come italiano, di Brescia, era il nome lungo e sferragliante che Ferlinghetti si portava dietro, la sua lontana identità italiana che lo aveva spinto, una decina d’anni fa, a portare in giro per l’Italia le sue “altre” opere, quelle da pittore. A Reggio, a Roma: per i suoi 100 anni sarebbe ritornato, da pittore, a esporre a Brescia, terra d’origine.

A Reggio il foyer del Teatro Comunale nel 2010 aveva ospitato – grazie a quella che è stata la sua più stretta collaboratrice, la reggina Giada Diano, sua traduttrice, biografa ufficiale e allora presidentessa dell'associazione "Angoli corsari", ente organizzatore dell’iniziativa – la mostra “Lawrence Ferlinghetti: 60 anni di pittura”. Roba da Ulisse: in qualche modo un ritorno, un ritorno nella terra del padre – quell'Italia così tanto amata da diventare protagonista, nel 1995, del libro "Scene italiane" (minimum fax)– e un ritorno alla pittura, l’altra sua arte.

Ma sulle rive dello Stretto, in quello scorcio d’un maggio abbagliante, era nato un progetto ancora più grande, che era stato illustrato come un «sogno mediterraneo»: 24 tavole di grandi dimensioni – dipinte ma anche scritte, intrecciando e incrociando tutte le anime dell’arte di Ferlinghetti – sul passaggio di Ulisse tra Scilla e Cariddi, basato sui canti dell'Odissea e sul canto XXVI dell'Inferno dantesco. E proprio sulle pagine di quei poemi antichi lui, l’Ultimo dei Beat, aveva tracciato gli schizzi: la forma sinuosa di Circe, la sirene, il volto scuro di Ulisse.

Un progetto, una visione, un sogno basato su una diversa possibilità: che Ulisse si fosse fermato qui, avesse scelto di terminare qui il suo viaggio. Perché l’arte è anche cambiare la direzione dei destini, sovvertire, inventare altri viaggi, altre conclusioni dei viaggi. Quel giorno balenò persino l’idea, la speranza che quel progetto così potente fosse l’inizio d’una rinascita. Cominciando proprio dallo Stretto, da Reggio (immagino dallo stesso approdo dove oggi sorge l’ “Opera” di Tresoldi, che a Ferlinghetti sarebbe piaciuta moltissimo): «La punta del "piede" – ci disse – fa muovere tutta la gamba... ». Il calcio di Ulisse, il “beat” che avrebbe mosso tutto.
È rimasta solo un’idea, e una cartella di schizzi. Ma nessuna idea va perduta, nessun beat, nessun ribelle è mai sprecato.

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