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Reggio 1908, memoria e riscatto

Dalla mostra in corso al Castello aragonese alla presentazione dello speciale annullo filatelico. Il presagio del cardinale Portanova: «La mia fine non è lontana, così non mi strazierà la vista delle rovine»

Racconta il canonico Rocco Vilardi come a Reggio Calabria, nella giornata del 27 dicembre 1908, la temperatura fosse mite e sciroccosa. Il mare, dalle cui profondità si sarebbe di lì a poco scatenata la tragedia, placido, quasi piatto, d’un colore quasi irreale. Qualche giornale satirico aveva appena pubblicato una poesiola irriverente, quasi blasfema, che chiedeva a Bambin Gesù l’invio di un terremoto. Nessuno conosceva ancora la confessione che il cardinale Gennaro Portanova, arcivescovo della città dal 1888 fino alla morte avvenuta il 25 aprile del 1908, aveva fatto ad un amico pochi giorni prima di morire: «Ho il presentimento della mia fine non lontana. Così non mi strazierà la vista delle rovine di questa povera città. Se la rovina viene e io non sarò più di questo mondo, recate un po’ della vostra energia fra gli sventurati».

«Il giorno dopo, centoquindici anni fa – scrive Stefano Iorfida, presidente di Anassilaos – all’alba del 28 dicembre 1908 (erano le ore 5.20.27 locali), una scossa sismica durata “appena” 37 o 40 secondi, divisa in tre fasi distinte, pari a 7,1 della scala Richter (11° grado della scala Mercalli “catastrofica”), seguita dopo circa cinque o dieci minuti da un maremoto le cui onde sulla costa calabrese raggiunsero un altezza massima oscillante tra i 6 e gli 11 metri circa nel tratto da Gallico Marina a Lazzaro, con un massimo all’incirca di 13 metri a Pellaro, distrusse le due antiche città dello Stretto e altri centri piccoli e grandi tra le due sponde, soprattutto dal lato reggino».

Qualche anno fa, nel 2021, è stata scoperta nei fondali marini tra la Sicilia e la Calabria la faglia che con ogni probabilità provocò la catastrofe. «Essa – ha scritto Giovanni Barreca, cui si deve tale scoperta – corre lungo l’asse dello Stretto ed è individuabile a circa 3 km dalle coste della Sicilia. Alla latitudine di Messina, la spaccatura curva verso Est penetrando nell’entroterra calabro per proseguire poi lungo l’asta fluviale del torrente Catona, una incisione fluviale tra Villa S. Giovanni a Nord e Reggio Calabria a Sud. La faglia è inclinata verso Est e raggiunge la lunghezza massima di 34,5 km». Si tratta del sisma più forte mai registrato in Europa almeno da quando è possibile registrare il fenomeno, forse preceduto tra il 361 e il 363 d.C. da un terremoto altrettanto grave come appare anche dalla epigrafe, ritrovata presso l’attuale Banca d’Italia al cui ingresso si trova un calco (ma l’originale è al Museo archeologico), risalente al 374 d.C., nella quale si fa cenno alla ricostruzione delle terme di Reggio crollate per un terremoto.

Il livello di distruzione urbana fu immenso non soltanto per la violenza delle scosse ma anche per la debolezza degli edifici che presentavano molte sopraelevazioni; per la costruzione di fabbricati su terreni alluvionali; per le fondazioni elevate, soprattutto dopo il terremoto del 1783, su terreni di riporto. Era insomma la cronaca di una catastrofe annunciata dovuta anche all’imperizia colpevole degli uomini come appare dal crollo della caserma “Mezzacapo”, un edificio tutto sommato moderno, in cui morirono oltre 270 militari. Il sisma causò la morte di circa 80mila persone (forse centomila secondo altre stime), comportò la perdita irreparabile di un ingente patrimonio architettonico e artistico, ebbe conseguenze gravi sul piano economico e sociale per i territori colpiti. «Questo il bilancio del terremoto calabro-siculo del 28 dicembre del 1908 che nella letteratura scientifica e sui mass media – rileva sempre Iorfida – viene chiamato “Terremoto di Messina” dal nome della città che ebbe forse le maggiori distruzioni e i maggiori morti (così ancora nel valore bollato emesso nel 2008) ma che in realtà sarebbe meglio definire “calabro-siculo” come del resto viene definito nella medaglia commemorativa che il Regio governo italiano realizzò quale riconoscimento a tutti coloro che si prodigarono nel prestare aiuto alle popolazioni colpite dal disastro. Non lo diciamo per una forma di campanilismo che sarebbe fuori luogo cento e più anni dopo ma per ristabilire una verità storica anche perché nelle immediate ore che seguirono il sisma sia i soccorsi che l’attenzione del governo e della opinione pubblica internazionale si rivolsero soprattutto alla città di Messina e negli anni seguenti la stessa Messina poté avviare, su una tale spinta, più celermente di Reggio, il suo programma di ricostruzione».

Se un evento di 115 anni fa è tornato di stringente attualità è anche grazie alla mostra, tuttora in corso presso il Castello aragonese “1908/Oggetti ritrovati. Memorie dal Terremoto dello Stretto” realizzata dal Comune con la collaborazione dell’Accademia di Belle arti, che espone monili ed altro materiale ritrovato tra le macerie degli edifici distrutti che restituisce, più d’ogni parola, l’immagine “umana” della catastrofe. Proprio oggi, nell’ambito di tale mostra, sarà presentato ai reggini lo speciale annullo filatelico che è anche un omaggio ai morti, troppi morti di quell’alba tragica e insieme un monito per il futuro. «Da allora in poi – conclude Iorfida – l’Italia si dotò di normative antisismiche stringenti e, da questo punto di vista, potremmo anche stare tranquilli ma alcune vicende recenti avvenute nel nostro Paese ci inquietano (il crollo della scuola a San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002, da poco risistemata, dove ove morirono 27 bambini e una maestra e il 6 aprile del 2009 il terremoto dell’Aquila che distrusse parzialmente la “Casa dello Studente”, con molti studenti deceduti). Spesso l’errore e l’avidità, la smania di costruire ovunque possono aggirare le norme più severe sulla carta e non vorremmo accorgercene a fatto compiuto».

La mostra al Castello aragonese, in programma fino al prossimo 28 febbraio, rappresenta una memoria collettiva ricostruita minuziosamente con immagini, video, reperti storici rinvenuti dopo il tragico sisma del 1908, che tracciano un percorso espositivo nel quale il visitatore è trasportato in una narrazione storica passata ma mai dimenticata. «È sicuramente un lavoro molto articolato, da vedere con i bambini, la famiglia, gli amici anche nel periodo festivo perché il passato non va accantonato in un cassetto – afferma il direttore Sacchetti in piena sintonia con la presidente dell'Accademia di Belle Arti Marilena Cerzoso –. Chi ha visitato l’esposizione, curata dai docenti Marcello Francolini, Remo Malice, Francesco Scialò, Pietro Colloca, Davide Scialò, Rosita Commisso, Davide Negro e con il coinvolgimento di numerosi allievi dell’Accademia di Belle arti, è stato catapultato in quella narrazione sonora, storica, fotografica che non solo ricorda la tragedia ma anche, mostra alle giovani generazioni la forza e i sentimenti di solidarietà e la voglia di rinascita».

Una capacità narrativa tra realtà e ricerca che infonde un importante messaggio: «Le grandi crisi, ieri come oggi, devono indicarci la strada per un futuro migliore». Ne è convinta l’assessore comunale Irene Calabrò che postilla: «Il Comune ha voluto dare un taglio diverso a questa esposizione museale, valorizzando i reperti riemersi dalle macerie del sisma e finora custoditi a Roma dalla Banca d’Italia, di cui l’Amministrazione è ritornata in possesso soltanto lo scorso anno dopo un lungo iter burocratico che ha visto impegnati i Ministeri di Economia e Finanze e Cultura. È un racconto per mettere in evidenza gli oggetti di quel tempo, un expo che recupera le tradizioni e le usanze dell’epoca di una comunità, la nostra, vittima di quel doloroso evento. Allo stesso tempo, però, ne segna una nuova lettura che guarda al futuro e alla speranza. Molti oggetti esposti accendono non soltanto un ricordo, ma anche un’ispirazione futura».

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