«Quando parlano di associazione a delinquere dovevano mettere insieme a me anche il ministero degli Interni e la Prefettura di Reggio Calabria, perché allora mi chiamavano San Lucano in Prefettura, perché gli risolvevo i problemi degli sbarchi. Perché a Riace c'era un’organizzazione dell’accoglienza, c'erano le associazioni, le coop e alla fine lo Stato mi ripaga dicendo che ho fatto l’associazione. Allora se ho fatto l’associazione anche loro sono partecipi perché mi chiedevano numeri altissimi per un piccolo borgo ai quali dicevo sì per la mia missione. E lo Stato come mi ripaga? Dandomi 13 anni e 2 mesi». A dirlo Mimmo Lucano, all’indomani della condanna decisa dal Tribunale di Locri.
«Sono dispiaciuto. Non ho nessuna cosa nella vita se non l’orgoglio di avere, per anni, inseguito un’ideale e di aver fatto delle cose che mi davano una fortissima gratificazione, essere di aiuto a tantissime persone arrivate a Riace in fuga dalle guerre, dalla povertà. Questo dava valore a quello che stavo facendo, che non era una cosa persa. Nel mio immaginario era come dare un aiuto al mondo». Seduto al tavolino di un bar di piazza Municipio, nel centro di Riace, Lucano, ancora non si capacità della condanna per presunte irregolarità nel sistema di accoglienza e integrazione dei migranti del "modello Riace".
«Per anni - dice con un filo di voce - ho avuto questa convinzione. Per anni lo Stato mi ha chiesto con insistenza. Io mi aspettavo l’assoluzione. Il giudice mi aveva revocato le misure cautelari dandomi la possibilità di venire a votare per le Comunali. Poi non conta la Cassazione e il Riesame che ha smontato l’accusa, come lo stesso gip che pure emise l’ordinanza nei miei confronti. Questa storia è piena di contraddizioni. Una è quella delle due relazioni della Prefettura fortemente contrastanti. Nella prima, per la prima volta, si è tentato, quasi scientificamente, di delegittimare, anche a livello mediatico, il cosiddetto "modello Riace", un piccolo paese che ribaltava il paradigma sull'accoglienza dove tutto è negativo e che è la causa di tutti i mali. Invece questo piccolo luogo quasi abbandonato faceva il contrario. Per me stesso non importa - afferma Lucano - ma non posso accettare per il dolore dei miei figli. Tutta la vita l’ho spesa in un certo modo».
Complotto ai miei danni?
«Non lo so ma mi sembra tutto strano. Sono stato condannato per peculato ma più di una volta la stessa Procura ha detto, no questo sindaco non aveva motivazioni economiche sul piano personale, però ha fatto distrazioni. Ma qua sta l’essenza del modello Riace. Con i soldi che in altri luoghi usano solo la parte di accoglienza, noi facevamo anche integrazione. Non potevo accettare, come sindaco, di un piccolo luogo che l’accoglienza fosse unilaterale che riguardasse solo i rifugiati. Ho pensato che doveva riguardare anche gli abitanti del luogo», continua Lucano commentando la contestazione più grave, il peculato, che gli è costata una pesantissima condanna. «Un luogo povero dove quasi è obbligatorio andare via. Ecco che con gli stessi soldi abbiamo fatto quel di più, abbiamo realizzato il frantoio, la fattoria sociale, le case per il turismo dell’accoglienza. Ho cercato, in assenza dello Stato, di rispondere alle necessità dei giovani, per farli rimanere in questa terra e dare loro un’opportunità di lavoro. Ora tutto questo è diventato criminale».
Il ricordo
«In questa vicenda ci sono tante ombre e cose gravi. Mi aspetto che qualcuno si ricordi della ragazza che, a causa della chiusura del progetto Cas per mancanza di fondi, è poi morta in un rogo nella baraccopoli di San Ferdinando». A ricordare la giovane, Becky Moses, 26enne nigeriana morta il 27 gennaio 2018, è lo stesso ex sindaco di Riace: «Nell’elenco delle persone da trasferire, al numero 15 c'era Becky Moses che per due anni ha vissuto a Riace ed era felice. Partecipava alle manifestazioni, alle feste. Era venuta a Riace, nel mio ufficio, per chiedere la carta d’identità e gliela ho fatta. E questo non me l’hanno mai contestato anche se le mancava il permesso di soggiorno. E dove è andata a finire Becky? Nella baraccopoli di San Ferdinando, nel mondo degli invisibili dove ha incontrato la morte. La sua capanna ha preso fuoco ed è morta bruciata viva. Per 4 mesi i suoi resti sono rimasti nell’obitorio. Mi hanno chiamato e adesso è nel cimitero di Riace, l’unico luogo che ha tentato di dare dignità alla sua vita da viva e da morte. Per quella morte spero un giorno ci sia giustizia e che qualcuno si ricordi di lei, qualcuno deve rispondere».
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