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Odissea in scena a Reggio Calabria, le immagini della prima di Mario Incudine e Peppe Servillo

E’ lui, è sempre lui, il nostro emblema e rovello. Il nostro eroe, che ci è più caro quando patisce, piuttosto che quando vince. Che ci è più caro quando capisce, piuttosto che quando combatte. Il nostro eroe che è partito e tornato – come tanti di noi, forse tutti, perché chi resta può essere errante come chi parte, e chi parte può essere fermo come chi resta. Lui, Ulisse. Il suo nome sa ancora di sale, e a Reggio – sullo Stretto, centro del Mediterraneo – è stato declinato una volta di più, mille volte di più, nell' “Odissea, un canto mediterraneo”, lo spettacolo di Mario Incudine e Peppe Servillo, in prima nazionale, che ha chiuso il bel Festival Miti Contemporanei diretto da Teresa Timpano.

C'erano tutti, i personaggi dell'avventura antica più moderna di tutte, che ancora oggi abita il nostro immaginario, riveste di nomi, figure, storie ogni vicenda di peregrinazione, di sete di conoscenza, di volontà di rompere i vincoli e valicare i confini dei mondi. Ma anche ogni nostalgia di ritorno, ogni Itaca di quelle che portiamo nel cuore, a cui non smettiamo di voler tornare, e che pure vogliamo cambiare, perché ne siamo fuggiti, e non smettiamo di fuggirne («un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», scrisse Cesare Pavese, e con questo titolo si è appena tenuto proprio a Reggio – che sempre più è avamposto di riflessione sul presente – un convegno sulle terre spopolate e i paesi della memoria, che invece sono abitatissimi, e soprattutto ci abitano per sempre).

Un Ulisse non di ieri o di oggi, ma di sempre, è quello che si è incarnato nei corpi, nelle voci e nelle musiche dello straordinario gruppo di artisti convocati sul palco del Cilea a Reggio Calabria (e in tempi di chiusura dei teatri e di spettacoli ridotti all'osso è stata una bella manifestazione di fiducia e amore per l'arte e per il pubblico).

La sua storia, d’altronde, è patrimonio comune e condiviso: potenza degli archetipi, dei miti fondativi, e dell'anima vasta della gente dello Stretto, della gente meridionale, della gente mediterranea. A loro, a noi è giunto il canto delle onde: Peppe Servillo, che ha aperto con l'urlo della spadara («pigghilu, pigghilu, pigghilu...»), un richiamo di morte che queste sponde conoscono da sempre, ed era il Mediterraneo in persona a cantare. Ha aperto e chiuso, con un Mario Incudine generoso come sempre a fare quello che sa fare meglio: concertare sulla scena l’apparato di suoni, idee, lingue, immagini che è ogni suo spettacolo; trasformare in musica, in emozione la sua conoscenza di ogni accento, ogni espressione della prosodia profonda di queste terre, delle forme che ogni popolo ha scelto e ci lasciato, ogni eredità di bellezza e linguaggio; dirigere e assieme mescolarsi perfettamente all'Orchestra popolare siciliana, al direttore musicale Antonio Vasta, a Giorgio Rizzo, Antonio Putzu, Faisal Taher, Kaballà (che con Incudine è autore delle musiche, così come nel 2016 firmò con lui, assieme a Moni Ovadia, una memorabile edizione delle “Supplici” per l'Inda di Siracusa, trasformando la tragedia classica in canto mediterraneo).

Grazie a pochissimi elementi scenici continuamente riassemblati (opera delle Antiche Segherie Mastrototaro di Bisceglie), i “quadri” della vicenda di Ulisse ci sono tutti: la tentazione di Circe, l’inganno di “Nessuno” a Polifemo (e questo è uno dei fulcri magici dello spettacolo: un “cuntu” potentissimo dalla voce vibrante di Incudine, nella più autentica tradizione siciliana), la malìa delle sirene (impersonate dalle leggiadre danzatrici della compagnia Il cuore di Argante), il ritorno da Penelope (la cantante messinese Anita Vitale, dalla perturbante presenza e dalla voce che trapassa i mondi).

Una storia, ci si rende conto, che appartiene a tutti, a chi è andato e a chi è restato e a chi arriva: «A chi invoca il tuo nome, Ulisse, risponde il viaggio». Solo poche ore dopo, nello stesso teatro il grande poeta Adonis, siriano in esilio in Europa, giunto qui per il Premio Rhegium Julii, avrebbe parlato del “suo” Ulisse che è «sempre la storia della partenza». E nelle voci di Servillo e Incudine si mescolano la storia di Ulisse e le mille odissee dei migranti di ieri e di oggi, indistiguibili: l' “amara terra mia” è anche quella che si nega, oltre a quella che ci partorisce e poi ci scaccia.

Una scrittura fine, sapiente – opera di Incudine, Vasta, Mariangela Vacanti e Sergio Maifredi, autore del progetto e co-regista – che affida a un Polifemo cieco, e forse finalmente capace di vedere, il commento e il controcanto che cuce assieme tutti i “quadri” (efficace il duetto comico di Ivan Bertolami, l’attore barcellonese che interpreta Polifemo, e Giuseppe Spicuglia, u' Ciclopuzzu): perché il nemico non è solo quello che abbiamo sconfitto, e l'amico non è solo quello che viaggia con noi o ci accoglie. C'è dolore, nel Mediterraneo, e noi che lo abbiamo vissuto da sempre non possiamo ignorarlo adesso. Proviamo a cantarlo.

Foto di Marco Costantino

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