«Che la nostra nazione, essendo erede della Magna Grecia, forma l’invidia di tutte le grandi potenze», la frase di Michele Arditi, direttore del Real Museo Borbonico di Napoli risale al 1820 e campeggia oggi come benvenuto all’ingresso della mostra “Tesori dal Regno. La Calabria nelle collezioni del museo archeologico nazionale di Napoli” al museo archeologico nazionale di Reggio Calabria.
Una frase sintetica che esprime straordinariamente un’intuizione: l’identità della nazione basata sulla consapevolezza del retaggio culturale. Tema che forse oggi potrebbe sembrare scontato ma che invece duecento anni fa era ancora in formazione nella coscienza degli intellettuali napoletani.
Nel Regno di Napoli la cultura era di casa insieme all’archeologia e la consapevolezza del valore di pietre, monete e vasi è tutta in quella sollecitazione che il funzionario fa al Re. Da quella consapevolezza e dall’impegno che lo Stato napoletano mise nel sovrintendere agli scavi, alla conservazione e allo studio dei reperti discende l’allestimento curato dai direttori del MArRC (Carmelo Malacrino) e del MANN (Paolo Giulierini). Un lavoro complesso e sinergico che ha stretto i rapporti tra i due principali “forzieri archeologici” del Meridione e forse d’Italia. Un lavoro di squadra a cui hanno dato un contributo fondamentale le archeologhe Daniela Costanzo e Maria Lucia Giacco, funzionarie rispettivamente al MArRC e al MANN.
Da segnalare, inoltre, il prezioso contributo della biblioteca del MarRC che ha fornito i volumi e i repertori dedicati al Museo e alle ricerche in Calabria tra ’800 e ’900, dell’assessorato alla cultura di Catanzaro e del museo dei Bretti e degli Enotri di Cosenza. Grazie a questo impegno corale è stata possibile creare un’offerta culturale da mozzare il fiato per la qualità dei reperti esposti, la loro magnificenza e i dettagli delle opere.
Una mostra da guardare con calma e a cui dedicare tempo perché ci parla di noi e di cosa sia stato capace di esprime il territorio calabrese e meridionale 25 secoli fa. Il Museo di Napoli, concepito nel XVIII secolo d.C., come “museo universale”, è andato arricchendo le proprie collezioni con reperti provenienti da tutto il territorio delle regioni del sud.
Come spiegano gli organizzatori: «Le collezioni reali costituivano il nucleo originario, successivamente incrementato con acquisizioni, anche da collezioni private. Nel 1865, il Museo acquisì la grande collezione privata Santangelo, con oltre 1400 reperti, tra vasi, terrecotte, bronzi, e 43mila monete, insieme a stampe e dipinti. Molti materiali, tra questi, provenivano dagli scavi in Calabria». Un patrimonio vastissimo e importantissimo che non è andato disperso per merito della politica lungimirante del Regno tesa ad acquisire, conservare e rendere fruibile il patrimonio.
A fare da guida all’inaugurazione del percorso - che comprende reperti rappresentativi delle collezioni napoletane a cavallo tra XVIII e XX secolo - il direttore Malacrino e l’archeologa Costanzo. Sono loro ad aver accompagnato un primo nucleo di fortunati visitatori tra i quali segnaliamo il questore Maurizio Vallone e l’assessore comunale Irene Calabrò. Reperti di eccezionale bellezza e pregio artistico hanno lasciato tutti col fiato sospeso anche grazie a una sapiente regia luminosa che ne ha messo in evidenza i dettagli. Preziose testimonianze dei grandi bacini archeologici dell’antico regno: come i celeberrimi Pompei ed Ercolano, ma anche Canosa, Ruvo di Puglia e Locri. E così entrando in un ambiente avvolgente e suggestivo si è accolti dall’hydria (vaso per l’acqua) datato V secolo a.C., e proveniente da Locri abbellita da una splendida gorgone con pegasi alati raffigurata nell’ansa verticale e poi il monumentale cratere (vaso utilizzato per mescere vino e acqua) apulo a figure rosse proveniente da Ruvo di Puglia e datato “solo” al 360-350 a.C. E ancora elmi classici, la stele marmorea ritrovata nella Locride, più precisamente nel vallone della Mannella nel ’700 che celebra le “Lampadedromie” (corse a staffetta con lampade accese) e il corpus delle preziosissime laminette in oro rinvenute nelle tombe monumentali di Thurii e databili al IV secolo a.C. «Si tratta – spiegano gli organizzatori - di invocazioni a Persefone e ad altre divinità, che testimoniano l’adesione a forme di religiosità misterica». Per finire col cosiddetto “Sarcofago di Eremburga”, un pregiatissimo reperto proveniente da Mileto, datato fine II secolo d.C. e quindi, realizzato in un periodo più antico rispetto al suo riuso per la sepoltura della seconda moglie di Ruggero I d’Altavilla, Eremburga.
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