Ho incontrato la me stessa di 3 anni, appiccicosa di gelato, accanto a una panchina. E poi la me stessa di 17 anni che passeggiava con le amiche sotto le fronde immense e l’ombra preistorica dei ficus-magnolie. E la me stessa, poi, degli anni della lontananza e dei ritorni – come qui capita sempre più spesso, sempre più a tanti. Erano tutte e tre in giro per il Lungomare, mentre cercavo un modo per abbracciare con lo sguardo l’estensione e i riverberi di “Opera”, l’installazione di Edoardo Tresoldi che da oggi della città e del suo lungomare è patrimonio – materiale, immateriale? Chi può dire con esattezza a cosa appartenga, questa materia smaterializzata che non fa che scomporsi e ricomporsi, giocando con le percezioni e persino i ricordi. C’è il segno forte della colonna, richiamo immediato ad archetipi che (letteralmente) reggono il nostro passato magnogreco (un passato di splendore che chiunque, su queste sponde, sente come prossimo, familiare, e non lontano millenni com’è). C’è la sintassi sinuosa e irregolare che suggerisce percorsi altri, fuori dalla logica del colonnato ma semmai lungo la linea delle aiuole e degli alberi, le volute delle radici, l’intreccio alto delle fronde. C’è la trasparenza della rete sottile, che contiene eppure dissolve le forme, le organizza e le disperde secondo il vagare dell’occhio, l’inclinazione della luce, il capriccio delle nuvole, il blu oltremare o oltremondo che s’impossessa delle cose, in certe ore o stagioni. C’è l’intero gioco di prospettive ingannevoli, mutevoli, multiformi che da sempre lega l’orlo della città e il suo mare stretto, tra la sagoma lontana del vulcano e il rifugio del porto. C’è l’illuminazione che cambia la consistenza e la presenza delle colonne, innescando nuove suggestioni. Non è necessario appartenere a questi luoghi per sentire la potenza di questo dialogo nuovo che entra dentro il dialogo antico tra la città e il mare, ma è più bello ancora aggiungere alle dimensioni illimitate che quest’ “Opera” mette in opera anche la città invisibile, stratificata che abita ciascuno di noi (gli anni dell’abbandono e della fioritura, di gioia o di dolore individuale o collettivo, le feste e i lutti). È un’opera coraggiosa, l’ “Opera” di Tresoldi, sfacciatamente poetica dentro un luogo già immensamente poetico. È un’opera imperiosa ma gentile, che invita a guardare, guardare, non spegnere mai lo sguardo (come può capitare a chi abita la Bellezza, e un giorno smette di vederla...). E’ un’opera illimitata, l’ “Opera” di Tresoldi, come lo Stretto: puoi continuare a fissarlo per ore, mentre persiste e cambia, e non finirai mai d’inseguirlo, percorrerlo, aggirarlo senza abbracciarlo mai tutto, senza che ti sfugga e si ricomponga in altra forma, in altra luce. È un’opera inconsumabile, come la memoria, come la memoria del futuro. Foto di Attilio Morabito