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I 50 anni dei Bronzi di Riace: nel linguaggio profondo degli archetipi

Sono diventati «icone» e hanno colonizzato subito il nostro immaginario, con la forza del richiamo a un ideale di perfezione che supera i tempi e le categorie

Forza e bellezza. Ma anche mistero, a comporre il profilo di una seduzione che viene da lontano, dal V secolo A. C., per dire ancora oggi quanto l’umanità sia assetata di figure simbolo, come i Bronzi che il mare di Calabria ha custodito per secoli e, una volta emersi, continuano a parlare di una perfezione mai raggiunta dai comuni mortali. Perché questo è il mito, una rappresentazione tra realtà e sogno che rende possibile il fantasticato, avvertendo tuttavia l’uomo dell’insidia che può celarsi dietro le apparenze o tra le pieghe di un modello ideale, di una storia perfetta.

Così i due guerrieri di Riace, statue in bronzo di mirabile fattura, che il tempo sembra non aver scalfito, riescono a stabilire un contatto col nostro inconscio, sollecitando archetipi interni, che, pur con le loro zone d’ombra, parlano un linguaggio senza limiti epocali o confini geografici. Guerrieri dall’identità sconosciuta, ci dicono tanto della Grecia classica, di quei valori che nell’arte come nella poesia e nel teatro rimangono insuperabili per contenuti e bellezza. Eroi valorosi, di cui Sparta ha vantato i più rappresentativi (si pensi a Leonida e ai suoi condottieri), noti al mondo come uomini addestrati alla disciplina e al combattimento, decisi nel perseguire gli obiettivi di dominio; soprattutto coraggiosi, al punto da mettere in gioco la vita stessa per proteggere la Patria e la loro gente. Incarnazione di forza, quindi, ma anche di sicurezza e determinazione nel superare ostacoli ed opposizioni, in nome della fedeltà all’ideale d’azione.

C’erano tutti gli ingredienti per farne un mito, e non solo. Perché il guerriero emerso dalle acque, oltre che coraggioso, è bello nella fattura del corpo, proteso al combattimento con tutta la muscolatura, capace di impugnare le armi, anche le più pesanti, con grazia e bellezza, senza mai apparire goffo o mostrare segni di sfinimento. L’antichità classica ci ha consegnato così, attraverso il mare, un ideale di eroe potente nel corpo e nell’anima, rendendo azione e pensiero inscindibili, premesse di vero successo. Tutto ciò che è venuto dopo quegli albori illustri della nostra Storia non è stato che un tentativo più o meno riuscito di assomigliare al modello e interpretarne i tratti salienti.
In questo senso i Bronzi di Riace possono dirsi “icona”, immagine di valori allo stato puro, anche nelle possibili zone d’ombra tipiche dell’archetipo che rappresentano. Qualsiasi valore, infatti, contiene il suo opposto, che in particolari circostanze della vita reale può emergere con tutto il peso delle interne contraddizioni; tant’è che nella dialettica inconscia con l’archetipo, la sua “ombra” – come espressione del “doppio deteriore” – può venir fuori e mostrare l’altra faccia della perfezione. Allora il valore del coraggio può diventare prevaricazione o cieca opposizione, e la bellezza trasformarsi in ossessione per la forma, sterile esibizione della fisicità, come involucro esterno avulso dai suoi contenuti. La storia ci consegna molti esempi al riguardo, tra cui la cultura del “machismo” e la connessa idolatria del fisico maschile come espressione di un Io potente, assoluto e prevaricatore. Tratti distanti dal modello originale di una maschilità in linea con le suggestioni di luce dell’archetipo, non con la sua ombra.

Molti i film che hanno glorificato la figura del guerriero greco, narrandone le gesta e talvolta l’azione violenta; ma non hanno mai intaccato l’indiscussa seduzione del modello tramandato. Lo dimostra l’attenzione planetaria riservata alle due statue che il Museo Archeologico di Reggio Calabria custodisce gelosamente, nonostante le reiterate richieste di spostamenti temporanei o definitivi. Un prodotto artistico cult, che nelle innumerevoli imitazioni e rimaneggiamenti iconici fa emergere il potere comunicativo dell’archetipo sottostante.
Rappresentativa in tal senso, la riproduzione del Bronzo A, ad opera di Vinzenz e Ulrike Brinkmann, esposta alla Fondazione Prada a Milano, nell’ambito della mostra “Serial Classics”, co-curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola nel 2015, dedicata all’esplorazione del rapporto ambivalente tra originale e imitazione nella cultura romana e il suo insistere sulla diffusione di multipli come omaggi all’arte greca.

L’aspetto vitale dato dall’utilizzo dei colori offre una declinazione inattesa della figura classica (corpo atletico con pelle naturalmente abbronzata; armi di bronzo dorato), per un risultato che seduce al primo sguardo. Apparentemente irriverenti, gli scatti realizzati dal fotografo Gerald Bruneau nel 2014 hanno ritratto una delle due statue agghindata di velo da sposa, tanga leopardato e boa di piume. Immagini che hanno fatto discutere, ma anche detto tanto rispetto a un modello di maschilità che non divide i generi, ma li accomuna nei significati simbolici, nell’esibizione della parte femminile insita in ogni uomo. Andando oltre, si approda a due cornici rosse che contengono delle possenti forme dei Bronzi solo il contorno vuoto, opere dell’artista Sacha Sosno (collocate nel 2006 sul corso Mazzini di Cosenza): massima glorificazione della valenza evocativa dei corpi, che non rende necessaria l’esibizione della forma. O, ancora, viene in mente uno spot, che ha addirittura trasformato i due guerrieri in cartoon. Esempi che potrebbero suonare come dissacratori, mentre dimostrano la forza seduttiva del mito e il perenne bisogno umano di viverlo nei suoi innumerevoli significati. In ogni epoca.

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