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Reggio, Daniela Ielo ricorda suo padre ucciso dai clan VIDEO

«Sono felice di non avere abbassato la testa davanti a tanto orrore». Daniela Ielo ha un sorriso contagioso, un buonumore che ti si attacca addosso mentre parla con suo spiccato accento reggino. Una gioia esteriore che contrasta con il velo di tristezza che le copre gli occhi appena si inizia a parlare di suo padre. Il ricordo di quella maledetta sera del 25 maggio 2017, quando due killer freddarono Bruno Ielo mentre tornava a casa, è un pensiero che non può essere cancellato.

Daniela era in compagnia del padre, al suo fianco quando ha esalato l’ultimo respiro. Una tragedia per l’intera famiglia, ma soprattutto per lei che quell’orrore l’ha vissuto da vicino, un lungo piano sequenza con un finale tragico. Si emoziona ancora a distanza di 6 anni, mentre racconta di suo padre, del loro rapporto, delle sue scelte. «Papà si è trasferito a Gallico alla fine del 2016 perché ha spostato la tabaccheria qui. Subito dopo ha subito un atto intimidatorio».

Pochi mesi prima di essere ucciso, infatti, Bruno Ielo rimane vittima di un primo agguato. Qualcuno entra nella tabaccheria e gli spara in bocca. Il commerciante, ex carabiniere, si salva miracolosamente. Le indagini all’inizio puntano verso l’ipotesi di una rapina finita male. «Noi non sapevamo niente di quello che stava accadendo – dice Daniela - Dopo il primo attentato è stato detto che si trattava di una rapina finita male. E mio padre non lasciava trasparire nessuna preoccupazione, forse per non farci impensierire. Mio padre l’ho visto sempre sereno, mai preoccupato. Da quando aveva subito l’attentato, però, io rimanevo sempre insieme a lui per chiudere la tabaccheria».

Una routine quotidiana andata avanti per alcuni mesi e che unisce ancora di più padre e figlia. Un’abitudine che viene interrotta da due colpi di pistola in una serata di fine maggio. «Quella sera del 25 maggio 2017 – dice la donna - ci siamo fermati in un bar qui vicino e abbiamo preso un caffè. Subito dopo io sono partita a bordo della mia auto, lui sul suo scooter. A un certo punto, mentre eravamo diretti a casa ho visto sfrecciare un motorino e subito dopo ho sentito un colpo di pistola». Il viso di Daniela si rabbuia mentre rivive quei terribili attimi che portarono alla morte di Bruno Ielo: «Ho alzato gli occhi – aggiunge - e ho visto nello specchietto retrovisore il motorino di mio padre per terra. Sono scesa di corsa dall’auto, mi sono inginocchiata al suo fianco, ma mi sono subito resa conto che era morto. A pochi passi da noi c’era la pistola. Il mio ultimo ricordo di quella sera è la chiamata che ho fatto a mia cugina per dire che papà era morto. Poi più nulla».

La famiglia piange il capofamiglia non riuscendo a capire cosa sia successo, per quale motivo Bruno Ielo fosse stato ucciso. E se la prima volta si poteva pensare a una rapina finita male, questa volta quella spiegazione non pare essere plausibile.

«Dopo l’omicidio di mio padre – continua Daniela - tutta la mia famiglia era scioccata. Inizialmente non abbiamo avuto notizie sulle indagini o sul perché mio padre fosse stato ammazzato. Sono serviti tre anni di indagini da parte della polizia per riuscire a ricostruire il quadro all’interno del quale è maturato l’omicidio di mio padre».
Secondo quanto è emerso dalle indagini, sarebbe stato ucciso da un collega tabaccaio che faceva parte di una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta della zona, i Tegano. Tre anni, quindi, il tempo necessario per individuare il presunto mandante e i killer che avrebbero agito la sera del 25 maggio. Trentasei mesi per giungere alla verità: Bruno Ielo sarebbe stato ucciso dalla ‘ndrangheta.

«Prima che gli fosse riconosciuto lo status di vittima di ‘ndrangheta – spiega Daniela Ielo – quindi, sono servite tre anni, cioè il tempo delle indagini da parte delle forze di polizia. Un tempo lunghissimo, duro e doloroso per tutta la mia famiglia».

Intanto, però, il 12 dicembre dello scorso anno, la Corte d’assise di Reggio Calabria ha messo un primo tassello dal punto di vista processuale a questa vicenda condannando all'ergastolo gli imputati Francesco Polimeni e Francesco Mario Dattilo; a 30 anni di reclusione Cosimo Scaramuzzino. I tre sono considerati rispettivamente mandante, esecutore materiale e basista dell’omicidio. Nella sentenza, infine, è stato condannato a 15 anni Giuseppe Antonio Giaramita.Il dolore e il vuoto lasciato dal padre, però, non le hanno fatto gettare la spugna. «Mi è servito tanto coraggio a riprendere in mano l’attività di mio padre – argomenta Daniela - All’inizio ho riaperto la tabaccheria forse in maniera inconsapevole, poi ho cominciato a capire e a condividere appieno la decisione presa da mio padre di restare a Gallico. Bruno Ielo perché era un cittadino onesto, un ex carabiniere. Sono felice di non avere abbassato la testa davanti a determinati tipi di situazioni». La sua determinazione qualche volta, però, vacilla come quando alcuni mesi fa subisce un furto.

«Sono entrati di notte dopo avere rotto la serranda. Ho rivissuto per l’ennesima volta una situazione di shock. Infatti, il primo pensiero è stato quello di mollare tutto e andare via da questa città che, forse, non merita l’onestà che abbiamo dimostrato in questi anni». Un pensiero, però, che ben presto lascia il posto alla speranza quando pensa a «tutte quelle persone di Gallico che in questi anni mi sono state vicine e continuano ancora a farlo. Voglio ringraziarli tutti, anche la dottoressa Manfrè della squadra omicidi della questura di Reggio Calabria, Michelangelo Tripodi e la scuola di Catona che non hanno mai voluto che la memoria di mio padre venisse persa».

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