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Rogo mortale, in 3 mila nella tendopoli dov'è morto Surawa. Il prefetto: presto smantellato

Una veduta della tendopoli di San Ferdinando

Nel periodo invernale, quando parte la campagna della raccolta degli agrumi, arrivano ad essere anche 2-3.000, anche se il numero ultimamente si è ridotto.

Ma sono comunque in migliaia i migranti, donne e uomini, che vivono nel fango, in baracche costruite in plastica e lamiera, in quella che viene impropriamente chiamata la tendopoli di San Ferdinando dove nella notte fra sabato e domenica è scoppiato un incendio che ha ucciso il diciottenne gambiano, Suruwa Jaiteh.

In realtà è una baraccopoli, una vera e propria bidonville, con costruzioni fatiscenti e maleodoranti tirate su su un terreno che d'inverno diventa un acquitrino melmoso. La tendopoli, quella vera, dista solo poche centinaia di metri.

Allestita dalla Regione e gestita insieme al Comune di San Ferdinando con il coordinamento della prefettura, è composta da tende fornite dalla protezione civile ed è dotata di impianti di videosorveglianza, servigi igienici, box docce.

Ogni migrante - qui ci vivono circa 550 persone - è dotato di badge e la vita è dignitosa. Ma basta percorrere quelle poche centinaia di metri per ritrovarsi in un girone infernale: vecchie lamiere poste a mo' di pareti, plastica per coprire gli spazi vuoti ed evitare le infiltrazioni di acqua sono le "abitazioni" dei migranti che vengono a cercare un lavoro nei campi.

Sfruttati, alla mercé dei caporali - nonostante l'intensificarsi delle operazioni delle forze dell'ordine un fenomeno sempre presente - lavorano 10-12 ore al giorno per riuscire a mettere insieme al massimo 30 euro.

Molti sono regolari in Italia, come Surawa. Ma questo per i loro sfruttatori non fa alcuna differenza. Regolari o irregolari la "paga" - chiamarla così è un eufemismo - è la stessa per tutti, una miseria. Periodicamente, soprattutto in occasioni di tragedie come quelle della scorsa notte - a gennaio scorso una donna di 26 anni, Becky Moses, era morta in un incendio, in quel caso doloso - si parla della necessità di smantellare questa struttura, sorta dopo la "rivolta dei neri" - come fu chiamata all'epoca - del gennaio 2010.

La baraccopoli fu la risposta all'abbattimento di un'altra struttura fatiscente, un vecchio capannone, dove vivevano allora. Ed è cresciuta giorno dopo giorno fino ad arrivare alle dimensioni attuali. Per trovare una soluzione il prefetto di Reggio Calabria Michele di Bari ha costituito un tavolo permanente.

L'obiettivo, ha ribadito il prefetto, è giungere allo smantellamento completo. E in tal senso è stato anche individuato un sito alternativo: un'area ex industriale nella Piana di Gioia Tauro. "La volontà - ha dichiarato il prefetto - è quella di sostituire le tende con i container, garantendo acqua, gas e luce".

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