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Tra l’8% e il 18% per portare la droga fuori dal terminal di Gioia Tauro

«In due anni abbiamo fatto innumerevoli operazioni, per tonnellate di cocaina. Porti di partenza erano Turbo in Colomba, Cristobal a Panama (circa il 70% delle operazioni), forse qualche partenza da Brasile e Ecuador, magari con passaggio da Panama. Tutti viaggi su Gioia Tauro». A parlare coi magistrati è Raffaele Imperiale, il napoletano “boss dei Van Gogh”, indagato dalla Dda di Reggio per narcotraffico internazionale: è lui, secondo i magistrati, uno dei superbroker capaci di spostare tonnellate di polvere bianca grazie a una fittissima rete della quale farebbero parte narcos sudamericani e importanti famiglie della ’ndrangheta, con tanto di “esfiltratori” specializzati nel porto di Gioia.
Dall’hub calabrese, secondo i risultati di mille indagini, la droga prende ogni direzione: resta nella Piana, va nella Locride, inonda tutto il Sud Italia così come l’importante piazza di Milano. E va anche al Nord Europa, come racconta fra i tanti anche Imperiale: «Mandano i camion in Olanda, ogni operazione era da 80/100 kg».
La Dda di Reggio è convinta di avere trovato solidi riscontri sulla complicità di operatori portuali infedeli. Il compenso ricevuto dai soggetti deputati all’esfiltrazione della cocaina dal porto di Gioia Tauro starebbe in una forbice tra «l’8 e il 18% del valore di mercato della merce». Una filiera che dai broker come Imperiale spazia fino ai funzionari doganali corrotti (a Gioia ce n’è uno indagato) e trasportatori.
Per esempio, in una conversazione intercettata a fine 2020 tra un dipendente della “Medcenter Terminal spa” e un personaggio all’epoca latitante si fa riferimento a un vero e proprio mercato in concorrenza: si parla di cifre, «il 15, il 13, il 10», che starebbero a indicare «la percentuale – annota la Dda – dell’intero valore dello stupefacente» mandato fuori dal porto. «Io gliel’ho detto che gli cercavo il 12, perché lui insisteva, perché loro già sapevano il 12… il 12, praticamente, lo abbiamo preso tutti», dice un altro indagato ascoltato dai Carabinieri. Alla fine, d’altronde, un accordo si trova sempre: «Dal 10 al 15 in base al lavoro poi ci accordiamo».
Anche il gip di Reggio Calabria, nell’ordinanza di custodia cautelare dello scorso ottobre sfociata in decine di arresti fa qualche conto: «In occasione del recupero dei 300 chilogrammi di cocaina effettuato il 31 dicembre 2020, gli indagati facevano riferimento a un compenso inferiore al 10% e, nello specifico, discutendo in una chat di gruppo, rilevavano come la retribuzione complessiva fosse stata pari a 696mila euro, importo calcolato su una percentuale del1’8% ed un valore della cocaina di 29mila euro al chilogrammo». I dati, effettivamente, li fornisce un indagato, anche lui intercettato: «Ho fatto il conto all’8 pulito e a 29 ed escono 696».
Ricostruito almeno uno dei sistemi per eludere i rigidi controlli all’interno del porto e spostare la droga tra montagne di ananas o frutta esotica. Pagando si aggirava tutto. La squadra entrava in azione con “la tecnica del ponte”, accostando due container, uno pulito e quello “contaminato”. Quindi si trasferiva il carico, dopo aver ingegnato una sorta di blindatura visiva proprio per proteggersi dai monitoraggi dall’alto, oppure si scambiava il codice d’uscita. Con il bollo “free” il container usciva dal porto di Gioia Tauro e i padrini del narcotraffico stappavano bottiglie di champagne. Persino «il doganiere – contesta la Dda – si prodigava per orientare l’attività dell’organizzazione, addirittura indicando le modalità di occultamento della droga più efficaci, ai fini del superamento di eventuali controlli, tramite la predisposizione di uno schema grafico».

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