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Le aziende della ‘ndrangheta, ripulite ma... collassate: dalla confisca al fallimento

L’INCHIESTA - Come funziona l’aggressione patrimoniale alle ‘ndrine. L’obiettivo è rendere legale ciò che non lo era. In pochi, però, riescono a resistere sul mercato

L’obiettivo è togliere dal mercato le aziende gestite dalla criminalità organizzata e garantire, se possibile, i posti di lavoro. La prima parte dell'opera è più semplice, la seconda assai più complicata. Mentre negli ultimi decenni, infatti, è cresciuta in maniera esponenziale l’aggressione ai patrimoni illeciti di boss e picciotti da parte delle procure antimafia di Reggio Calabria e Catanzaro, dall’altra si assiste al fallimento di un gran numero di aziende che quegli stessi patrimoni avevano contribuito a far prosperare con metodi, diciamo, poco ortodossi: inquinamento del libero mercato e concorrenza sleale (solo per citarne alcuni).

Repressione e lavoro. Il compito dello Stato, quindi, è in prima istanza la repressione, ma il mancato compimento della seconda parte dell’equazione può lasciare aperte delle ferite che difficilmente si rimargineranno, in contesti economici già molto provati, come quello calabrese.

In parole povere: i posti di lavoro persi a causa del fallimento delle aziende sequestrate e poi confiscate difficilmente verranno ricreati in tempi brevi.

Il messaggio che giunge a chi non ha strumenti per cogliere le sfumature, tra chi perde il lavoro e con difficoltà ne troverà un altro, rischia di essere dirompente: «Non possiamo fare passare l’idea che la ‘ndrangheta crei lavoro e noi, istituzioni, lo distruggiamo».

È l’allarme lanciato dal procuratore generale presso la Corte d’appello di Reggio Calabria Gerardo Dominijanni. Il magistrato da anni sta cercando di attirare l’attenzione dello Stato centrale sul problema e aprire una seria riflessione sulla prima fase di gestione delle aziende sottratte alla ‘ndrangheta, vale a dire quella del sequestro. Una richiesta giunta anche in Commissione parlamentare antimafia, ma fino ad oggi nessuno ha chiamato il procuratore generale per approfondire il tema.

Le aziende confiscate in via definitiva sono gestite dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc).

Dal sequestro alla confisca. Il processo che porta alla confisca definitiva, però, è preceduto da tappe intermedie, la prima delle quali è il sequestro. Tappe fisiologiche dal punto di vista giudiziario, che servono alla magistratura per appurare con certezza se un’impresa sia controllata o meno dalle mafie.

Il sequestro viene confermato dalla confisca, «un provvedimento adottato dal giudice in seguito al sequestro dell'azienda, con cui, all'esito del contraddittorio con le parti coinvolte, si perviene alla verifica dei presupposti per l'applicabilità del provvedimento ablatorio nei confronti del titolare...». Si tratta comunque di un provvedimento che può essere ancora impugnato, che tuttavia consente di tenerlo fermo con una maggiore aspettativa di espropriazione definitiva del bene.

La confisca definitiva, infine, è un provvedimento ablatorio definitivo all'esito delle impugnazioni previste (appello e ricorso per Cassazione) ovvero del decorso del termine fissato per proporre le impugnazioni. Con la confisca definitiva l'azienda è acquisita al patrimonio dello Stato.

Solo dopo questa ultima fase, quindi, l’azienda entra nella gestione dell’Agenzia. Arrivato a questo punto, però, la situazione economico-finanziaria delle aziende è, nella quasi totalità dei casi, già compromessa.

Da più parti si punta il dito contro gli amministratori giudiziari, quelle figure chiamate dai tribunali per gestire le aziende nella fase del sequestro e, spessissimo, anche  dall’Agenzia in co-gestione in quella della confisca.

Il “costo  della legalità”. Nel passato anche recente, la gestione delle imprese finite nelle maglie della giustizia sono state affidate alla cure di avvocati o ingegneri, professionisti con poche competenze specifiche nella gestione di tipo manageriale di un’azienda.

Di contro, però, c’è da segnalare anche la posizione di chi sottolinea come «la stragrande maggioranza di quelle aziende è sopravvissuta sul mercato  cannibalizzando tutti quegli imprenditori che con fatica rispettano la legge, pagano i contributi e i fornitori. Per il mercato è un bene che chiudano». Il “costo” della legalità, lo si potrebbe definire così, è rendere legale ciò che non lo era. E non molte attività imprenditoriali sono in condizione di poter stare sul mercato dopo avere subito questo processo di “pulizia” interna. Un nuovo modello di gestione  Nonostante ciò, la necessità di ripensare a un nuovo modello di governance per le aziende confiscate è oggetto di discussioni negli apparati dello Stato e, soprattutto, all’interno dell’Agenzia. Secondo quanto appreso, proprio l’Anbsc starebbe discutendo di possibile accordo con Ferdermanager. Un progetto che dovrebbe  coinvolgere degli addetti ai lavori nella gestione della parte commerciale e industriale delle aziende confiscate in via definitiva e che rientrano nel novero di quelle (poche) che sono in condizione di stare ancora sul mercato. Un indirizzo che guarda al futuro, quello dell’Anbsc, una scelta chiara che mira non solo a dare continuità aziendale alle imprese, ma anche a inviare  un segnale forte indirizzato a territorio e cittadini.

Lo spartiacque è lo “choc di legalità”

«Le aziende mafiose vanno estromesse dal mercato legale perché “drogano” il mercato di un territorio ai danni delle aziende oneste, bloccando lo sviluppo». La missione operativa dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata è sintetizzata dal suo direttore Bruno Corda.

Il prefetto alla guida dell’Anbsc ha approccio pratico al problema della gestione delle aziende confiscate. Nelle sua parole si legge la consapevolezza dell’importanza della partita che lo Stato sta giocando contro le mafie, non solo dal punto di vista repressivo, ma anche su quello della credibilità. Perché se da un lato è fondamentale spezzare il giogo esercitato della criminalità organizzata nel tessuto economico, è altrettanto importante non fare passare l’idea che lo Stato (automaticamente) dopo avere preso possesso di un’azienda la porti a fallimento.

Il doppio compito dello Stato, e quindi dell’Agenzia, «è il mantenimento dei posti di lavoro e la gestione dell’azienda per il superamento da una posizione illegale a legale – spiega il prefetto Corda –. Non tutte le aziende confiscate, però, possono superare questo scoglio, che in gergo chiamiamo “choc di legalità”. Dobbiamo pensare che un’azienda in mano a un malavitoso si fonda sull’illegalità e la sopraffazione, sul mancato pagamento dei contributi ai dipendenti, spesso retribuiti anche con stipendi bassissimi. Inoltre, subito dopo il sequestro, il vecchio proprietario può condurre un’azione  intimidatoria nei confronti, per esempio, dei fornitori per non servirsi più da quella ditta». In questo quadro già poco edificante, si assiste a una moria di aziende in tutta Italia, non solo nel Sud e in Calabria: «Molte di queste però – sottolinea il direttore Bruno Corda – sono scatole vuote, che quando erano in vita producevano solo false fatturazioni. Le aziende confiscate a livello nazionale sono circa tremila, il 68% delle quali sono scatole vuote. Il numero di quelle attive si aggira tra le 150 e le 170. Un numero molto basso, ma è su quelle che dobbiamo puntare le nostre forze e competenze. Devono essere seguite e supportate in modo che possano superare lo “choc di legalità”. Questo è l’impegno maggiore perché arrivano in stato di grande criticità».

In Calabria, le aziende confiscate sono circa 900 e solo una ventina sono ancora attive. Un dato che dimostra quanto sostenuto dal prefetto Corda e dello sforzo che bisogna fare per mantenere in vita e rimettere sul mercato quelle poche che riescono a superare lo choc di legalità.

«Dal punto di vista giuridico – spiega il direttore dell’Ansbc – la nostra prima competenza, subito dopo cambio management che avviene in fase giudiziale, è reimmettere le aziende sul mercato o venderle. Nella prima ipotesi, è prevista la costituzione di cooperative di lavoratori che non siano stati coinvolti nel management; nella seconda ipotesi, invece, si rivende e, se c’è un prevalente interesse pubblico come per esempio delle aziende di raccolta rifiuti, si destina agli enti pubblici». Mentre, per esempio in Sicilia, la costituzione di cooperative di lavoratori che rilevano gratis azienda e mezzi di produzione è un fatto ormai consolidato, in Calabria questa pratica stenta ancora a prendere piede. In questo momento, ci sono tre progetti dei quali l’Agenzia sta discutendo insieme a Legacoop. Un punto di partenza, un piccolo segnale per la nostra regione che con piccoli passi può rimettersi in cammino. Un cammino seguito passo passo dall’Agenzia. «Intanto – spiega il prefetto Corda – siamo in condizione di controllare il piano industriale. I beni sono dati in comodato di e l’azienda così continua a vivere. Ci sono contributi iniziali per avviamento, mutui a zero interessi e poi c’è, come dicevo, il supporto di esperti per piano industriale: è in poche parole una start up, non possiamo accompagnare l’azienda per sempre, quindi, il piano industriale è fondamentale. Infine, prima di dare l’ok alla costituzione della coop siamo in grado verificare personale: coloro che sono usciti dalla porta non possono rientrare dalla finestra. La coop, quindi, non può essere condizionato, valutiamo e stiamo attenti a chi partecipa alla coop». Il prefetto non entra nel merito della polemica sugli amministratori giudiziari: «La loro qualità sta crescendo, ormai ci sono università che propongono master di secondo livello, dei corsi votati all’applicazione pratica sulla gestione aziendale. Naturalmente tutto è perfettibile, ma negli ultimi anni c’è una maggiore volontà che va supportata. Non è pensabile che arriva il manager e risolve tutto, soprattutto in un territorio difficile». In territori come quello calabrese, serve l’aiuto di tutti, come quello delle «organizzazioni sociali che devono supportare aziende libere e lavoratori (che passano da essere comandati a dover comandare), perché anche con i migliori manager non si risolve tutto. È un seme che sta germinando e il sindacato sta diffondendo questa cultura, ma serve tempo, riuscire a rompere questo meccanismo è difficile. Quando dico il territorio, il tessuto socio- economico, devono dare una mano. È interesse di tutti che il mercato non sia condizionato dalla criminalità. È una battaglia che dobbiamo vincere noi».

«Non  può  passare l’idea che i clan danno occupazione e lo Stato la distrugge»

Nei mesi scorsi ha tentato di aprire una discussione in Commissione parlamentare antimafia, ma per adesso non si è andato oltre un primo abboccamento con la presidente Chiara Colosimo. La gestione delle aziende confiscate alla ’ndrangheta è un pensiero fisso del procuratore generale di Reggio Calabria Gerardo Dominijanni. Il magistrato ne ha fatto una battaglia di principio, una lotta per fare capire che lo Stato può e deve fare di più per tentare di salvare quelle imprese che sono state gestire dalla ’ndrangheta, ma che dopo essere state “curate” posso continuare a stare sul mercato continuando a dare lavoro a centinaia di persone

Per il procuratore Dominijanni, questo passaggio dovrebbe essere garantito da amministratori giudiziari preparati al gravoso compito a cui sono chiamati, competenti e pronti a mettersi in gioco per perseguire quell’obiettivo. «Il fallimento delle imprese confiscate, e il dato è altissimo  – sottolinea il magistrato inquirente – dipende dagli amministratori giudiziari. Mi chiedo se durante la loro gestione tentino di acquisire nuovi contratti. Se non lo fanno, che senso ha dar loro in gestione un’azienda? Il dato fondamentale è che bisogna garantire i lavoratori, che in moltissimi casi non hanno niente a che fare con la ’ndrangheta. Capita spesso che dopo il sequestro preventivo, le aziende siano ridate ai legittimi proprietari, ma se va bene gliele riconsegniamo decotte, nel peggiore dei casi sono già fallite». Per il procuratore generale «se il “grado di mafiosità” è molto alto, diciamo, è difficile salvarle, ma se c’è anche una possibilità, come Stato, abbiamo il dovere di farlo».

Dominijanni torna a mettere in discussione gli amministratori giudiziari: «In questo contesto, però, non c’è una valutazione sul loro ruolo. Non sono imprenditori, cosa ne sanno di come si gestisce un’azienda? Prendono lo stipendio e non rischiano nulla». Per suffragare la sua tesi, il procuratore generale prende cita un caso pratico: «Stiamo cercando di abbattere degli immobili abusivi e per questo mi sono rivolto a imprese edili sequestrate. Ebbene, gli amministratori giudiziari di quelle imprese non vogliono partecipare al bando accampando scuse perché, credo, non vogliono responsabilità. Su 30 procedure aperte neanche un’azienda sequestrata ha voluto partecipare».

Per cercare di risolvere il problema e affrontare la questione della gestione delle aziende da parte dello Stato, Dominijanni ha avuto una interlocuzione con la presidente della Commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo. «Attendo ancora di essere convocato. Ma credo che il legislatore – sottolinea il magistrato – debba intervenire, intanto prevedendo di dare la gestione ad amministratori capaci (né avvocati, commercialisti e ingegneri), e poi anche garantendo con le banche l’apertura del credito alle imprese che possono essere salvate». Quasi sempre, però, le banche subito dopo l’azione della magistratura rifiutano di dare credito agli amministratori giudiziari. Dominijanni ha una sia teoria in merito: «Perché – chiede – dovrebbero concedere credito se sanno che quelle imprese sono destinate a fallire? Troppe aziende sottratte alla criminalità organizzata falliscono. Questo comporta una doppia sconfitta per lo Stato: la perdita di credibilità e di posti di lavoro. Ci sono dei limiti nell’attuale normativa? E se sì, come possono essere superati? Partiamo da qui e diamo risposte certe».

La difesa degli amministratori giudiziari: «Non siamo l’anello debole del sistema»

Svolgono un ruolo cruciale nella fase del sequestro e quando scatta la confisca spesso coadiuvano i funzionari dell’Agenzia. Gli amministratori giudiziari sono considerati da più parti come l’anello debole della macchina statale, attaccati per il numero enorme di imprese fallite. Anche per questo motivo, nel corso degli ultimi anni si sono moltiplicati i corsi di formazione, i master universitari di secondo livello, per dare la possibilità ai professionisti che vogliono intraprendere questo percorso e dotarsi di strumenti specifici nella gestione delle aziende sequestrate. A difendere la categoria è il presidente dell’ordine dei commercialisti di Reggio Calabria, Stefano Poeta.

Un passato da amministratore giudiziario, Poeta spiega il punto di vista della categoria. «Il lavoro che deve fare l’amministratore giudiziario - afferma - è complicato perché è chiamato a gestire un’impresa che fino a poco tempo prima contava nella compagine sociale dei mafiosi. Il suo compito è dare continuità all’attività aziendale, fare un controllo giudiziario nel periodo del sequestro facendo rispettare le regole». Secondo quanto sostiene Poeta, appena l’azienda viene colpita dal sequestro preventivo «il sistema si blocca. L’accesso al credito diviene un miraggio perché le banche alzano un muro. Anche le commesse su cui l’azienda poteva contare vengono interrotte, ma non solo da parte di clienti privati ma anche dalla pubblica amministrazione».

Davanti a questa situazione, secondo il commercialista, l’amministratore giudiziario ha pochissimi margini di manovra per poter mantenere in vita l’azienda che potrebbe essere ridata al vecchio proprietario o essere confiscata.

La testimonianza dell’imprenditore: «Ci sono riuscito, ma non lo rifarei...»

«Quando ho preso la decisione di venire in Calabria a gestire un hotel confiscato alla ’ndrangheta, mi chiedevano se fossi diventato matto. L’azienda adesso cammina sulle sue gambe, ma se potessi ritornare indietro probabilmente non lo rifarei». Fernando Carlucci è un imprenditore del Molise, alla fine del 2018 decide di accettare l’offerta degli amministratori giudiziari per la gestione dell’hotel Parco dei Principi di Roccella Jonica, grande struttura alberghiera confiscata alla cosca Aquino. Una sfida, forse assunta all’epoca con un pizzico di sana follia, che oggi un po’ rimpiange

«Il territorio – sostiene Carlucci – da quanto ho capito in questi pochi anni in Calabria il cambiamento lo chiede, ma non lo vuole. Questa terra è impregnata della cultura della “comparanza”, del fare finta di niente, ma io non sono così, la mia storia personale e professionale non mi permette di accettare questo modo di agire e di pensare».

Carlucci è un ex carabiniere che dopo essere uscito dall’Arma ha iniziato a lavorare nella ristorazione e nella gestione alberghiera. «Ho alle spalle una lunga esperienza di lavoro in diverse parti d’Italia, collaborazione con le forze armate e con le forze dell’ordine. Mi piace definirmi un “imprenditore istituzionale” – dichiara – perché nello Stato io ci credo e con lo Stato ho anche lavorato. Appena arrivato a Roccella Jonica sono subito andato a presentarmi ai comandanti delle Compagnie dei Carabinieri e della Guardia di Finanza e al Commissariato di Polizia».

Il suo arrivo nella Locride risale alla fine del 2018: «Gli amministratori giudiziari – racconta Carlucci – hanno dovuto lottare per mantenere in vita la struttura, con molta fatica sono riusciti a portarla fino alla confisca. Mi hanno proposto di prenderla in gestione e nel contratto c’era una sola clausola: se l’hotel fosse stato ridato ai proprietari sarei dovuto uscire di scena».

Gli inizi alla guida del Parco dei Principi non sono stati facili. Avere sottoscritto una convenzione con le forze dell’ordine non ha aiutato, secondo quanto racconta Carlucci, il rilancio della struttura: «Sa cosa si diceva nella zona dopo avere rilevato l’albergo? Non andate al Parco dei Principi perché è un covo di sbirri. Quella convenzione con le forze dell’ordine evidentemente non andava giù a molti, ma io ho un rapporto leale con il territorio e lo Stato. Gestisco l’unica azienda che sulla costa ha il Durc e fa gare d’appalto con le istituzioni. Questo territorio chiede il cambiamento, ma mi pare il cambiamento non lo voglia. Io, comunque, vado avanti senza farmi intimorire, ma registro con amarezza che la politica locale non fa quanto dovrebbe fare, non amministra il territorio, basti vedere cosa stava succedendo con i lavori alla galleria della Limina».

La strada per ridare dignità alla struttura e rilanciarla da punto di vista economico-finanziario non è stata facile. «Rimetterla in piedi è stato complicato – spiega Carlucci – pochi mesi dopo averla rilevata è scoppiata la pandemia. Un disastro, ma adesso posso dire con grande orgoglio che l’azienda funziona e cammina sulle proprie gambe. In estate riusciamo a dare lavoro a circa 50 persone, in inverno purtroppo siamo in 8-9, perché ancora non c’è molto mercato».

Carlucci chiude parlando delle difficoltà dello Stato a mandare avanti le aziende confiscate: «La gestione deve essere data in mano a persone competenti, inutile girarci intorno. Resta il fatto che poi ti ritrovi come se fossi in un isolotto circondato da alligatori, perché amministrare un’azienda confiscata in Calabria non è lo stesso che farlo a Milano».

 

 

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