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Locri, vent’anni fa l'omicidio di Massimiliano Carbone. La madre: «La speranza? È finita»

Il 17 settembre 2004, vent’anni oggi, l’euro circolava da appena due anni, suscitando le lamentele di massaie e pensionati che rimpiangevano il potere d’acquisto della lira. Lamentele che durano ancora, in effetti. I cellulari più diffusi erano i Gsm prodotti in Usa e Scandinavia con pulsanti comodi anche per i polpastrelli più ruvidi. Da allora è cambiato parecchio: la lira è roba da collezionisti, il potere d’acquisto è ancora peggiorato, e i cellulari sono prodotti in Cina e contengono il mondo intero.
Gaetano Scirea, il 17 settembre 2004, era morto da 15 anni. Grande calciatore della Juventus, nato nella fredda Cernusco sul Naviglio, a 1244 chilometri stradali da Locri, campione del Mondo nell’82, perse la vita nel 1989 in un incidente a bordo di una vecchia auto in Polonia. È stata di recente intitolata a lui dal Comune – senza un motivo particolare, a dire il vero, o forse sì, non lo sapremo mai – una delle tante strade senza sbocchi che si intrecciano nel cuore di Locri.
Massimiliano Carbone, giovane imprenditore, aveva 30 anni e abitava in quella strada, che allora si chiamava Traversa Campo Sportivo. Una sera rientrò a casa dopo una partita di calcetto. Il buio di quella via fu il più fedele alleato di chi lo attese armato. Nessuna videocamera inquadrò i connotati di chi decise quella sera di poter disporre della sua giovane e dignitosa esistenza. Nel buio, quel volto rimasto anonimo sparì dopo un paio di colpi. Prima delle urla di dolore.
Massimiliano – assassinato il 17 settembre 2004 in quella via Traversa Campo Sportivo che dopo l’ultimo giro di intitolazioni del Comune, alcune a vittime di mafia, è diventata via Gaetano Scirea – morirà una settimana dopo, il 24 settembre. Da allora sono cambiate tante cose, ma la cappa di omertà su questo e altri omicidi impuniti da queste parti e in questa Locri, non è mai mutata. Il 24 settembre in Cattedrale una preghiera ricorderà Massimiliano, per la ventesima volta. Per sua madre, Liliana Esposito il tempo si è fermato. E lei neanche, si è mai fermata. Con la dignità e il coraggio di sempre.
Liliana, va bene se lo definiamo un un ventennio gattopardesco?
«Sì, e siamo in tanti a pensarla così. Ognuno aveva fatto affidamento sulla legalità partecipata, sui proclami di libri scritti per committenza e sui personaggi culto, ed era esaltante la retorica delle manifestazioni, mentre intanto la speranza si faceva parola abusata e concetto rarefatto. Chi ci crede più al cambiamento?».
E la giustizia terrena manca ancora…
«Da tempo so che una risposta di tribunale non ci sarà mai, e questa consapevolezza deriva ormai dalla mia personale esperienza della mentalità del contesto e dei metodi investigativi imposti dal sistema giudiziario. Accade che davanti a un’ingiustizia sociale e a un delitto ci siano rassegnazione e grande fatalismo, che in fondo sono una strategia di piccola sopravvivenza, per cui, dopo la primissima indignazione, si aspetta inerti e fiduciosi perché ci viene detto che “la credibilità dello Stato e delle Istituzioni si ha nell’assicurare i rei alla Giustizia e nel far sì che nessuna madre debba più piangere il proprio figlio”. Così mi scrisse nel 2008 il superprefetto di Reggio Calabria Luigi De Sena».
Quindi non ci crede più?
«Che cosa altro potrebbe fare una mamma dopo che ha avanzato le corrette, formali, dignitose e sacrosante istanze di verità e di giustizia e si è trovata a leggere molte centinaia di pagine catalogate come “modello 44”, cioè relative a indagini contro ignoti? È ancora un mistero sulla bocca di tutti, nonostante la... variazione toponomastica».
Cosa avrebbero dovuto fare gli inquirenti?
«Questo caso si sarebbe potuto risolvere in brevissimo tempo, sarebbe bastato espletare attività di investigazione a partire dalle mie prime due deposizioni, indagare sulle relazioni locali delle persone indiziate, tracciare un profilo genetico durante un’autopsia eseguita dopo 3 giorni e durata 6 ore».
E invece?
«Io accuso: ci sono state negligenze e superficialità; basti dire della perizia balistica effettuata dopo 22 mesi e soltanto perché presentai una memoria “ex art. 90”. E infine, non ci sarebbe stato neppure bisogno di interpretare alcune chiarissime conversazioni tra certi coniugi».
Eppure un pentito ha parlato in termini chiari. Possibile che l’abbia fatto solo lui?
«Ho letto le dichiarazioni rese a proposito della morte violenta di mio figlio, che parrebbe decretata da qualcuno che si sente padrone della vita altrui, in un’infinita saga di paese. Ho letto di possibili moventi coltivati in una visione primitiva degli interessi personali e dell’onore del maschio, ho letto nomi di probabili e prezzolati “sparatori”, termine usato dai Carabinieri al posto di “killer”, che forse fa più cruento. Qualcuno ha confermato a più di un magistrato, in modo coerente e quasi generoso. Sono stati 20 anni di resistenza nel mio lutto, ma sono e sarò forte e fiera di essere la mamma di Massimiliano Carbone, ucciso a 30 anni da molti miserabili, ma per sempre giovane e padre per sempre: un ragazzo di Locri, paese della “legalità”».

 

 

 

 

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