Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

La parola giusta, la parola donna! A Reggio il convegno «Il linguaggio di genere nel processo»

Gli stereotipi e i pregiudizi che ancora pesano sulla lingua “potente” della giustizia e dei media, e la riflessione collettiva necessaria per un cambiamento culturale

Uno strappo si è pericolosamente consumato nel tempo ed è quello di un linguaggio di genere “sottratto” all’evoluzione della società ed ai suoi cambiamenti sociali e culturali. «La lunga marcia delle donne c’è stata, ma sulle parole di genere siamo rimasti indietro», sottolinea la professoressa Antonia Cava, associata di Sociologia dell’Università di Messina. L’occasione è stato il convegno su un tema di stringente attualità, «Il linguaggio di genere nel processo. Pregiudizi, stereotipi e discriminazioni», tenutosi a Palazzo Alvaro.
L’iniziativa – organizzata dal Comitato di Pari Opportunità degli avvocati reggini, dalla Scuola Superiore di Magistratura (Distretto di Reggio Calabria) e dal Comitato Pari Opportunità presso il Consiglio Corte Giudiziario Corte di Appello di Reggio – ha registrato i qualificati interventi del moderatore, il giudice Giovanni Verardi; di Olga Tarzia, presidente della Corte di Appello; di Gerardo Dominijanni, procuratore generale; di Rosario Infantino, alla guida del Consiglio dell'ordine degli avvocati reggini; di Carlo Morace, delegato Ocf del distretto reggino; della magistrata della Corte d’Appello Francesca Di Landro; di Saveria Cusumano, presidente del Comitato Pari Opportunità degli avvocati. Ai loro saluti iniziali si sono aggiunte le relazioni di Flavia Modica, sostituta procuratrice presso il tribunale di Reggio Calabria, dell’avvocata Ilaria Li Vigni, delegata OCf del Foro di Milano, autrice di numerosi libri, tra cui «Donne e potere di fare. Presenza ed azione femminile», e della giornalista della Gazzetta Anna Mallamo, che ha tratto le conclusioni.
Per tutti, un punto focale di confronto è stato quello citato come incipit da Mallamo: «Chi non è nominato, non fa parte della storia. L’impianto patriarcale è ancora del nostro mondo, fondato sulla disuguaglianza e lo squilibrio di potere tra i generi, malgrado i tanti progressi realizzati, ed il femminicidio non è che l’epilogo di questo sistema di sopraffazione, l’emergenza di un continuum di violenze che talora non trovano ascolto né possibilità di denuncia. La lingua è un’infrastruttura culturale che riflette lo schema di potere della società che la produce, e degli stereotipi e pregiudizi che l’infiltrano non sono immuni né il mondo giudiziario né il mondo mediatico e i loro linguaggi tecnici». Ma, anche attraverso confronti come questo reggino, c’è il terreno del cambiamento, e le forze per attuarlo: «Costruiamo ponti di condivisione; facciamoci tutti strumenti di sistema e utilizziamo la parole per farci sentire».
E tra gli strumenti s’inserisce bene l’Osservatorio di analisi degli atti difensivi e dei provvedimenti giudiziari rilanciato da Saveria Cusumano, con l’obiettivo di creare regole comuni per un linguaggio giuridico scevro da pregiudizi e discriminazioni. L’idea è stata prontamente raccolta da Francesca Di Landro, già attiva su questo fronte con l’adozione di un protocollo sottoscritto da tutti gli uffici giudiziari, ordini avvocati e CPO avvocati del distretto, che dedica un apposito paragrafo al linguaggio non discriminatorio.
Tanti, dunque, gli spunti di riflessione a partire dalla profonda valenza socio politica che riveste l’attenzione a un linguaggio correttamente declinato al femminile e inclusivo, come richiamato da Olga Tarzia, e la necessità di una formazione che oltre lo studio delle norme riguardi il rispetto della differenza di genere nel linguaggio. «I rischi sono quelli del tono di una frase detta in modo “diverso”, di una domanda fuori luogo che durante il processo può fare sentire la vittima d’una violenza sessuale responsabile dell'accaduto. Tutto questo può divenire esso stesso violenza, perché insinua il timore nella vittima di non essere creduta», evidenzia il presidente degli avvocati Infantino.
E per le vicende di violenza, l'inasprimento delle pene o misure come la “distanza” o il braccialetto elettronico offrono solamente «una risposta immediata ma non ragionata». Non sono certo un intervento di sistema. Così, per il procuratore generale Dominijanni sarebbe necessario «entrare nel cuore dei processi educativi e del rapporto tra famiglia, scuola e genitori». Dunque, la discriminazione di genere va combattuta anzitutto sul piano culturale. «La politica sbaglia nell’affidare al processo penale la soluzione dei problemi; il sistema penale non è strumento per risolvere patologie sociali e le leggi degli ultimi anni non hanno determinato miglioramenti», asserisce Carlo Morace, ricordando il progetto d’accordo con il Miur per l’educazione nelle scuole attivato dall’avvocatura nazionale.
Ed ecco il percorso: riconoscere i pregiudizi, dare loro un nome e depurare il ragionamento giuridico dagli stereotipi. Flavia Modica porta all’attenzione una serie di casi giudiziari, di brani dibattimentali in cui l’ uso del linguaggio mistifica i fatti e “giustifica” o attenua i comportamenti violenti del colpevole. «Il pericolo è quello della vittimizzazione secondaria, con le vittime che nel processo rivivono le sofferenze subite», spiega la magistrata mettendo un punto fermo: «La violenza non va vista come devianza ma come fenomeno strutturale».
Dunque il linguaggio, fortissimo strumento di potere (e soprattutto la «parola potente», e che per questo richiede ancora maggiore responsabilità, del sistema giudiziario così come del sistema mediatico), è ancora incrostato di una cultura secolare. «Non ha incamerato una cultura di genere: tanti nostri strumenti sono molto datati. Magistrati ed avvocati hanno la responsabilità sociale di fare superare i pregiudizi culturali», ribadisce nel suo appassionato intervento Ilaria Li Vigni, che ripercorre le tappe di un’evoluzione che ancora non si compie, e mette in guardia dai rischi che un’involuzione del nostro mondo può comportare su questo delicatissimo, cruciale terreno.
Ed ecco, dopo il minuto di silenzio, e anche il minuto di rumore, nel nome di Giulia, aleggiare, a chiusura, la speranza di una rete comune che rinnovi il diritto delle libertà delle donne e sia fondativo di una nuova cultura del rispetto di genere.

Caricamento commenti

Commenta la notizia