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Annalisa Malara, l'anestesista originaria di Reggio Calabria che ha scoperto il "paziente 1"

“Chi salva una vita salva il mondo intero”. L’antica ammonizione del libro sacro del Talmud è ancora più calzante se la si associa alla vita di Mattia Maestri, cioè il “paziente 1”, lo sfortunato 38enne balzato suo malgrado agli onori della cronaca per essere il primo malato italiano a cui è stato diagnosticato ufficialmente il Covid all’ospedale di Codogno la sera del 20 febbraio.

A salvare quella vita, dando il primo allarme su quanto stava avvenendo – ma ancor di più su ciò che sarebbe potuto accadere – fu l’anestesista Annalisa Malara anche lei 38enne, nata e cresciuta a Cremona ma con profonde e vitali radici reggine. Se già il cognome è un chiaro indizio, la storia raccontata dal padre mette nella giusta luce il valore e l’intraprendenza della figlia e il suo fortissimo legame con la città dello Stretto.

Antonino Malara, classe 1954, la prima cosa che evidenzia con orgoglio è la propria militanza nel ruolo di portiere del Tremulini, formazione calcistica che nei primi anni ’70, tra i dilettanti, dava filo da torcere a tutti, compresi gli irriducibili avversari della Libertas Archi. Lui in porta e Pino Gatto in attacco rendevano la squadra una “macchina da guerra”. E poi i meravigliosi giardini di Sbarre a ridosso della chiesa dell’Itria dove viveva insieme ai genitori e alle sorelle Eleonora, Margherita e Antonella.

Un’infanzia e un’adolescenza vissute negli anni straordinari della ricostruzione, fino ai moti di Reggio con i nomi di Ciccio Franco, Natino Aloi e Renato Meduri ben radicati nella memoria di chi, come lui, viveva nella “Repubblica di Sbarre”. O ancora il professore Profazio, docente di costruzione al “Panella” e fratello del “mastro cantaturi” Otello.

Anni difficili in cui era facile scivolare dalla parte sbagliata, quella dell’illegalità e delle cosche emergenti, che tuttora inquinano il presente e ipotecano il futuro di tanti giovani. Ma Antonino cresceva assai bene, seguendo gli insegnamenti del padre che lo ammoniva: “Nenareddu, pane, cipudda e testa alta”. I principi e i valori erano tutto. Questo sapeva e questo ha trasmesso alle figlie Annalisa e Isabella. Dopo l’università a Cosenza, il grande balzo a Cremona nel 1979, il matrimonio (celebrato a Reggio alla chiesa dell’Eremo) con l’umbra Tosca Chiavoloni e l’assunzione in ferrovia. Dove, con il ruolo di macchinista per la Trenord, diventa anche protagonista di un’avventura a lieto fine che poteva trasformarsi in tragedia. La mattina del 2 novembre (!) 2011 mentre percorreva la linea Cremona-Treviglio, d’improvviso si trova di fronte un grosso rimorchio carico di letame rimasto in panne al passaggio a livello. Malara fa in tempo ad azionare il freno d’emergenza e a dare l’allarme alla capotreno e ai passeggeri che si trovavano nello scompartimento per avvisarli dell’imminente impatto. Per fortuna il treno si blocca a meno di tre metri dall’ostacolo e tutti si salvano senza danni.

Al netto di queste avventure, Antonino realizza il suo percorso familiare e professionale mantenendo intatto il cordone ombelicale con Reggio, che “vive” più volte l’anno per un abbraccio ai genitori, alle sorelle e ai sette nipoti (Ferdinando, Giovanni, Giuseppina, Cristina, Rossella, Serena e Gaetano). Con loro Annalisa e Isabella costruiscono solidi rapporti e condividono passioni sportive. Sì, perché dal Tremulini del padre alla Cremonese della figlia Annalisa il passo è breve. La primogenita, dopo un periodo di equitazione, pratica contemporaneamente atletica e calcio diventando l’idolo giovanile della squadra che milita ai massimi livelli.

Annalisa, tra l’altro, si merita gli onori della stampa in occasione del diploma al Liceo Classico per aver centrato, in contemporanea, diversi traguardi sportivi.

Nel frattempo, le due sorelle a Reggio sono ormai di casa e assorbono dai racconti del padre e dalle arti culinarie di nonna Rosa i “rudimenti di regginità” che rendono familiare questa terra. Soggiorni più o meno lunghi, ripetuti nell’anno, che hanno visto Annalisa confrontarsi con i cugini (specie Gaetano) sul campetto di calcio vicino alla chiesa dell’Itria, in un quartiere sempre meno agreste e sempre più urbanizzato.

Poi, anche per lei, venne il tempo dell’università e della laurea in Medicina. Studia ma lavora anche come assistente in una piscina per mettere da parte i soldi necessari per acquistare la Vespa. La laurea viene conseguita con sei mesi di anticipo e seguita da una protesta che, se non ci fosse stata, forse oggi non avremmo potuto raccontare questa storia. «Per essersi laureata sei mesi prima – spiega il padre divertito – non poteva accedere alla specializzazione. Avrebbe, infatti, dovuto aspettare due anni interi per un cervellotico meccanismo burocratico. Ma lei non si arrese, scrivendo una appassionata lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Che le rispose!».

Non sapremo mai se fu solo per la sua intraprendenza o per una lamentela più generale, fatto sta che le regole cambiarono e lei poté accedere alla specializzazione e consolidare il cammino di formazione professionale. Fino ad arrivare alle soglie del 2020 e al primo susseguirsi di notizie sempre più inquietanti provenienti dalla Cina. Il coronavirus, all’inizio sottovalutato, giorno dopo giorno diventa anche per l’Italia un mostro sempre più inquietante che si manifesta al pronto soccorso di Codogno nei polmoni di Mattia Maestri. La storia è nota. Annalisa percepisce che quello che ha di fronte non è una semplice polmonite e chiede di fare un tampone. Tale procedura, divenuta oggi di routine, quattro mesi fa non era scontata né richiesta dai protocolli dell’Oms. Ma la Malara insiste. Anche se non è obbligatorio, quel tampone va fatto urgentemente. Una scelta caparbia e coraggiosa come andare a cavallo o giocare a calcio, mettendo nel conto crociati rotti due volte. Ma qui c’è in ballo ben più di un legamento. E l’intuito di Annalisa ha ragione. Il tampone dice Covid-19.

L’anestesista con sangue reggino blocca tutto e tutti, chiude il reparto in isolamento e lancia l’allarme. Lo fa all’ospedale e lo fa a casa: «Ricordo la telefonata della mattina – racconta Antonino – “Papà, non ti preoccupare, è tutto a posto”. Dopo quelle parole provo un po’ di paura, poi man mano che aggiunge i dettagli mi terrorizzo».

Annalisa anticipa al padre le precauzioni da prendere: mascherina, distanziamento interpersonale, pulizia delle mani, chiudersi in casa e non uscire. Lo fa mentre altri intorno a lei minimizzano. Probabilmente, grazie a questo rigoroso atteggiamento, salva la vita anche ai suoi familiari. Poi per 36 ore consecutive non si separa dal “paziente 1” e ingaggia una lotta personale con il virus, battendolo come nelle migliori staffette. E a darle l’ideale cambio è un altro calabrese, il professore cosentino Raffaele Bruno, direttore di Malattie Infettive al “San Matteo” di Pavia, a cui Mattia viene affidato dopo il primo intervento.

Il resto è cronaca di questi giorni e una storia ancora da scrivere: Cavalierato della Repubblica conferito da Mattarella e premio “Rosa Camuna” della Regione Lombardia.

Ma Annalisa è sempre in reparto, a proseguire il suo lavoro e nel tempo libero si dà pure alle ferrate. Sì, perché adesso è arrivata l’ora dell’alpinismo. E se Antonino la invita a usare prudenza lei non ci pensa troppo e gli risponde “Papà, va curcati”.

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