Con i boss non si poteva parlare direttamente: niente telefonate né tecnologia di nessun tipo. Solo pochi “eletti” potevano avere un rapporto con Antonio Piromalli, pochi picciotti fidati che portavano “il verbo” agli affiliati a Gioia Tauro. È quanto emerge dalla lettura dei verbali di Francesco Trunfio, l'ex soldato del clan Piromalli divenuto collaboratore di giustizia nello scorso dicembre.
«Michele D'Agostino - spiega il pentito ai magistrati della Dda reggina, come riporta la Gazzetta del Sud in edicola - era coinvolto nella catena di messaggi che venivano trasmessi da Gioia Tauro e arrivavano a Milano e viceversa. Occorreva infatti un modo per tenersi in contatto con Antonio Piromalli, che ancorché non abbia mai vissuto a Gioia Tauro, comandava sul territorio.
C'era un ordine di Antonio Piromalli «per tutti noi: nessuno doveva chiamare al telefono». Il giovane boss, figlio del mamasantissima Pino Piromalli detto “facciazza”, era una specie di ombra, che comandava il clan da Milano, ma che a Gioia Tauro aveva orecchie e occhi fidati.
«Quando la famiglia di Antonio Piromalli scese per le vacanze estive nell'anno 2014 o 2015 - aggiunge Trunfio - Francesco Sciacca (cognato di Piromalli, ndr) si recò da Teodoro Mazzaferro per reperire un appartamento per i congiunti. Mio zio Gino Trunfio che era proprietario di immobili al centro di Gioia Tauro, mise a disposizione dei congiunti del capo un appartamento ubicato sul corso di fronte alla Chiesa».
Ritornando alla filiera che permetteva a Piromalli di comunicare con gli affiliati, Trunfio sostiene che «tutti sapevamo che a trasferire le ambasciate da Gioia Tauro e viceversa ad Antonio Piromalli era Pasquale Guerrisi».
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